“L’isola e il tempo” di Claudia Lanteri: un romanzo d’esordio di rara potenza

Si può incespicare sui ricordi come su un sasso in un terreno accidentato e, se il passo è incerto, si rischia di inciampare ancora e ancora una volta. La memoria tradisce, aspetta al varco, tende tranelli, fa i capricci, si ripresenta con abiti nuovi, insiste con il suo bel teatrino di comparse sempre uguali che appaiono diverse a seconda del punto di osservazione. La memoria, che è riproposta di un tempo andato, talvolta si rende presente e allora non basta allontanarla con una mano perché bisogna prima o poi farci i conti.
Con L’isola e il tempo Claudia Lanteri, libraia di professione, consegna un insolito romanzo d’esordio di rara potenza dentro il quale scendere in apnea, come il protagonista Nonò/Nofriu, libero di respirare solo quando immerso nella silenziosa e oscura profondità marina.
L’isola è un lembo di terra arida all’estremità meridionale della Sicilia. Sterpaglie, capperi, vigneti su cui sudare alla manciata di gente che la popola sono più cari del mare. L’immensa distesa azzurra va guardata da lontano, con diffidenza, o solcata da esperti pescatori che ne conoscono insidie e minacce. Da quelle lontananze pregne di mistero, in una giornata come tante, alla fine degli anni ’50 giunge un barchino con a bordo un uomo disperato e la giovane moglie ormai morta. Un incendio ha distrutto la nave, di cui lui era lo skipper, che portava a bordo anche la facoltosa famiglia Domoculta. Il paese si stringe intorno al suo dolore e la malcelata curiosità si insinua tra le pieghe di una storia che commuove alcuni e insospettisce altri.
Nonò è tra i sospettosi, quel vedovo affranto non gliela racconta giusta, così avvia un’indagine privata nella quale tenta di coinvolgere il professore Dalmasso, che paziente lo sta iniziando ai segreti dell’entomologia e della botanica. Sguardi allusivi, frasi lasciate in sospeso, ricerche lacunose sono cibo succulento per la sua personale fame di conoscenza. Nonò scalpita, non crede alla versione ufficiale, prova a percorrere sentieri non battuti, senza trovare le prove per ribaltare quella verità che a lui puzza di menzogna. Nonò, il ragazzino intelligente e curioso, si ritrova così adulto, Nofriu, un uomo considerato bizzarro e un po’ svitato, mai pago di raccontare quella storia che ha spezzato la sua adolescenza con un prima e un dopo barchino. Il mondo aperto delle possibilità si ripiega in quello chiuso del già compiuto.
E allora non resta che rassettare la piccola casa, raccontare più e più volte a conoscenti o a occasionali ascoltatori quella storia lontana ma non appannata, in un continuo andirivieni nel tempo alla ricerca di ordine e chiarezza. Ma non ci saranno orecchie complici per lui, solo distratta attenzione o peggio scherno, a chi potrebbe interessare una storia che puzza di vecchio raccontata da un uomo roso dalla solitudine? E della verità, nascosta tra le viscere di quel mare portentoso e infido, cosa dovrebbe farci se non incastrarla nella memoria fino a farla sanguinare? Una scatola da custodire è l’unico filo che lo lega al passato e l’unico ponte verso un futuro che non potrà compiersi, ma che non impedisce l’attesa e non uccide la speranza.
L’autrice, indossando il punto di vista del narratore come lenti sfocate e deformanti, riesce a far viaggiare lo spettatore tra ricordi che ricostruiscono fatti e ripropongono manciate di dettagli sempre più fitti e precisi fino a fornire la soluzione dell’enigma, che in realtà, persino per il lettore, è meno importante dell’atto stesso della reiterata narrazione. Ed è inoltre una soluzione che non segna l’appagamento del protagonista, per il quale l’assenza di giustizia è un dramma della coscienza, il delitto senza castigo non può pacificare giornate che sarebbero sempre le stesse se non fossero attraversate dal fuoco sempre acceso del ricordo. Dentro quel tempo teso come un elastico, pronto a distendersi per poi allentarsi e tornare allo stato iniziale, Lanteri inserisce a spizzichi e bocconi paesaggi e personaggi, i primi riprodotti con frasi appoggiate come colore raggrumato e rugoso, i secondi presentati nel loro quotidiano agire che suona con le note aspre della fatica e di sentimenti mai esibiti o con quelle stonate della noncuranza e della falsità.
Ed ecco la madre, Angelina, ligia al dovere sino all’esasperazione, capace di amare la sua famiglia di un affetto nascosto ma vivo e pervicace, il fratello, Filippo, che sa dispensare tempo e attenzione, Tina, la donna della bottega, rassicurante e protettiva, il maresciallo Bonomo, intento più a liberarsi di un caso fastidioso che alla ricerca della verità, il vedovo Bruno Surico, compagno di vita di una bella donna insolitamente dedita alla scrittura, Mattia, la bimba superstite che illanguidisce il cuore del ragazzo, la vecchia signorina Biancamaria Domoculta, che piomba come un rapace a sottrarre la nipotina e a portar via con sé la gioia di Nonò. E infine il paese, fatto di visi, gesti e voci che si protendono come tentacoli di un unico gigantesco polpo.
Nel periodare proteiforme e magnetico dell’autrice è gradevole perdersi e lasciarsi avviluppare. Lanteri usa una lingua scagliosa e languida, arruffata e distesa, una lingua capace di contenere opposti e porgere sollecitazioni, nutrita qua e là di un sapido lessico dialettale che non confonde ma orienta in luoghi che non potrebbero prescindere da esso.
È pensabile che un episodio lontano possa modificare la vita di un ragazzo fino a deformarla e a renderla altro da ciò che forse sarebbe stata? Su quell’isola in cui l’imprevisto non è previsto tutto è possibile anche infilarsi dentro un’ossessione senza tregua, in un racconto che a furia di essere ripetuto assume gli incantevoli connotati del mito.

