Nonsense, lingue inventate e libri incomprensibili [foto]

Bentornati alla spaventosa rubrica de “i libri illeggibili”. Ma quanti sono i libri che proprio non possiamo leggere?? Parecchi, purtroppo, ed in questo ottavo appuntamento, parleremo di quelli che, pur volendo leggere, non riusciremmo comunque a capire: i libri incomprensibili! A differenza di quelli di cui abbiamo già parlato nel nostro appuntamento sui manoscritti misteriosi, questi, sono già stati decifrati, è noto il linguaggio utilizzato per realizzarli, spesso se ne conoscono anche le origini, ma gli studiosi, non riescono proprio ad afferrarne il senso (sempre che ce ne sia uno).

Iniziamo con il “Rotolo di Ripley” una delle opere più enigmatiche attribuite all’autore e alchimista inglese del 15° secolo, Sir George Ripley. Si tratta di un lungo rotolo di pergamena, dipinto con scene allegoriche che dovrebbero rappresentare l’intero processo di creazione della Pietra Filosofale, corredate da parti di componimenti scritti in latino ed inglese. Tanto le immagini, quanto il testo, risultano, però, di difficile interpretazione: se le prime sono tutt’altro che chiare, i versi non sono da meno, e sembrano essere stati formulati di proposito con una terminologia piuttosto oscura ed arcana. Secondo gli esperti, capire cosa significhi effettivamente il rotolo è un compito impossibile, considerando anche che non si é certi nè della sua datazione di origine, nè tantomeno del suo effettivo autore. Ripley, infatti, scrisse sicuramente i componimenti, ma ciò non dimostra che avesse preso parte anche alla realizzazione del rotolo, il cui originale, per altro, è andato ormai perduto. Le 23 copie ancora conservate (tutte con lievi variazioni di immagini, colore e dimensioni), risalgono al 16° e 17° secolo, dunque, circa cento anni dopo la morte di Ripley. Ulteriori dubbi riguardano il soggetto che commissionó (o forse realizzó) il rotolo, del quale, non si hanno notizie certe. Innumerevoli quesiti, quindi, per questo straordinario manoscritto, disseminato di oscuri versi e simbologia mistica, per tutti i suoi quasi 6 metri di lunghezza. È probabile che le risposte a tutte le nostre domande siano proprio sotto i nostri occhi, nascoste tra le righe degli arcani componimenti, peccato che nessuno sia ancora riuscito capirle.

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Parte del “Rotolo di Ripley”
(2014, Wellcomeimages, CC BY 4.0, Wikimedia Commons)

Giungiamo al 1885, anno in cui fu pubblicato un opuscolo scritto in forma anonima, chiamato “il cifrario Beale”. Secondo la leggenda, nel 1817 Thomas Jefferson Beale ed il suo gruppo di 30 uomini, a circa 400 chilometri da Santa Fe, trovarono oro e argento in abbondanza. Ritornato in Virginia, Beale, seppellì buona parte del suo tesoro, consegnò una cassetta all’amico Robert Morris con l’indicazione di aprirla solo qualora non fosse ritornato nei successivi 10 anni, partì e non fece mai più ritorno. Quando Morris, molti anni dopo, aprì la scatola, trovò al suo interno tre fogli coperti di numeri e due lettere indirizzate a lui, in cui Beale raccontava la storia della scoperta dell’oro ed esortava l’amico a dividere il tesoro in 31 parti uguali: una per sè stesso e, le altre, per i suoi compagni di viaggio. Secondo le indicazioni, il primo messaggio cifrato, avrebbe rivelato il luogo del tesoro, il secondo, la descrizione di esso, ed il terzo, i nomi dei compagni di Beale. Ma Morris, non decifrò mai il contenuto degli scritti, per cui, decine di anni dopo, cedette l’intera cassetta ad un amico, il quale riuscì a decrittare il secondo messaggio con l’ausilio della Dichiarazione di indipendenza degli Stati Uniti. I numeri riportati da Beale, infatti, indicano pagine e posizioni delle lettere da trovare all’interno di uno specifico testo, il problema é, appunto, capire di che testo si tratti. L’amico di Morris (la cui identitá è ancora sconosciuta) riuscì a portare alla luce, dunque, solo la descrizione del tesoro nascosto da Beale, ma non la sua posizione. Così, nel 1885, decise di pubblicare il famoso opuscolo, con i due messaggi in codice e quello giá decifrato, forse nella speranza che qualcuno, prima o poi, ne venisse a capo. A partire da quel momento, in effetti, in tanti cercarono di risolvere l’enigma, provando ad utilizzare praticamente ogni libro possibile: testi giuridici, diversi libri della Bibbia, libri in lingua straniera, le commedie di Shakespeare, la Magna Carta, la Costituzione degli Stati Uniti, la Virginia Royal Charter, … ma nulla diede i risultati sperati. Nel corso degli anni, gli studiosi hanno elaborato le teorie più disparate, ed alcuni di essi, sono giunti alla conclusione che l’opuscolo sia semplicemente un falso. I dubbi riguardano principalmente i due messaggi non decifrati, che secondo i crittografi, non presentano le caratteristiche di un testo inglese; ed il fatto che ad essere stato svelato, sia stato proprio il secondo messaggio (cioé quello contenente informazioni pressoché inutili per il ritrovamento del tesoro), fa nascere sospetti circa la veridicità degli scritti. Nonostante tutto, non manca a tutt’oggi, chi considera i messaggi, incomprensibili, ma originali, sostenendo l’idea che il loro autore, avrebbe potuto usare un documento scritto da sé stesso per ciascuna o entrambe le chiavi, rendendo, quindi, inutile ogni tentativo odierno di decifrazione. Bufala o meno, vale la pena tentare, per un tesoro così descritto, dallo stesso Beale: “Il primo deposito è consistito in 1.014 libbre d’oro e 3.812 libbre di argento, depositate nel novembre del 1819. Il secondo è stato fatto nel dicembre del 1821 ed è consistito da 1.907 libbre di oro e 1.288 libbre d’argento, e anche gioielli ottenuti a St. Louis per ridurre la fatica nel trasporto, valutati 13.000 dollari.”. Parliamo, dunque, di quasi 4 tonnellate di metalli preziosi (gioielli esclusi)! Facile capire perchè Beale sarebbe dovuto ricorrere a dei messaggi tanto criptici… (troppo in questo caso).

Nessun metallo prezioso, fu utilizzato, invece, da James Hampton per la realizzazione dei 180 pezzi componenti la sua opera, tra i quali un trono, altari, corone, lanterne e pulpiti. “Il trono del terzo paradiso dell’Assemblea Generale delle nazioni del millennio” fu, anzi, realizzato principalmente con materiali di scarto, come carta stagnola, cartone, lampadine, barattoli di marmellata e nastri di vario genere. Hampton, fu un artista statunitense appartenente alla corrente dell’Art Brut, e nel 1950, affittò un garage, dove per oltre 14 anni, si dedicò alla creazione della sua opera di carattere religioso. Su molti dei numerosi pezzi, incise delle frasi tratte dall’Apocalisse di Giovanni, mentre, sul trono, l’oggetto principale, alto poco più di due metri, è incisa più volte la frase “Non temete”. In uno dei suoi diari, l’artista, descrisse la realizzazione come un monumento dedicato a Gesù Cristo, del quale gli era stato rivelato un imminente ritorno, attraverso una visione, anch’essa ampiamente descritta. Hampton, fu estremamente discreto riguardo la sua opera, tanto che solo nel 1964, a seguito della sua morte, il proprietario del garage preso in affitto, scoprì l’enorme scultura, conservata insieme ad una lavagnetta (sulla quale era riportata la frase “Quando non c’è visione profetica il popolo diventa sfrenato”), e ad un quaderno intitolato: “St. James: The Book of the 7 Dispensation”. Quest’ultimo contiene 108 pagine scritte in un alfabeto inventato dallo stesso Hampton, e le uniche note comprensibili (scritte in inglese) riportano ripetutamente la parola “Rivelazione”. Nel testo, inoltre, l’autore si auto identifica come “San James. Direttore, Progetti Speciali per lo Stato dell’Eternità”, ma non è chiaro quale fosse la visione dell’artista riguardo alla propria opera e se lui stesso si identificasse come parte di essa. Il “San James”, per altro, non fu l’unico testo scritto da Hampton, il quale, raccolse diversi appunti su vari pezzi di carta o cartone, oltre che su alcune pagine di altri sette quaderni dal contenuto piuttosto oscuro, ivi comprese le descrizione delle sue visioni religiose, ed in particolare le visite che avrebbe ricevuto da Mosè, dalla Vergine Maria e da Adamo nel giorno dell’elezione del presidente Truman. In un angolo del garage vi erano anche dieci placche a muro, identificate con numeri romani da uno a dieci, incise con quelli che sembrano essere dei nuovi comandamenti. Hampton, infatti, affermò che Dio stesso gli avesse dettato questa seconda serie di leggi, perché l’uomo non osservava più i Dieci Comandamenti originali. Vi è, poi, un’undicesima targa, più grande e ritagliata da una foglia d’oro, contenente il testo: “Piano per il riassetto delle nazioni”. Cosa significhino i messaggi riportati nel “St. James: The Book of the 7 Dispensation”, rimane, ad oggi, un mistero. Ad un primo sguardo, il quaderno sembra essere pieno di una miscela di scarabocchi casuali, ma dopo aver riportato la scrittura, opportunamente adattata, in un computer, il professor Mark Stamp della San Jose State University, scoprì che c’era uno schema ben definito, anche se il suo significato resta ancora ignoto. Perché Hampton parlava di un “terzo” paradiso? A quale assemblea generale si riferiva? Fece uso di una lingua non ancora identificata o di un linguaggio del tutto inventato? Tutta l’opera è il risultato di una forma di delirio artistico del suo autore o di una rivelazione mistica? A detta degli studiosi, Hampton si considerava un messia, più che un artista ed è probabile, che il suo messaggio sia destinato a restare in eterno in bella vista, ma incompreso. Se doveste aver voglia di tentare una sua interpretazione, sappiate che l’intero testo é stato reso disponibile on line, per cui, armatevi di pazienza, di un pizzico di fantasia, delle vostre migliori conoscenze crittoanalitiche e lanciatevi nell’impresa. Chissà che non troviate il senso di un testo, definito impenetrabile, ormai all’unanimità.

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“Il trono del terzo paradiso dell’Assemblea Generale delle nazioni del millennio”
(2017, Smithsonian American Art Museum, CC BY 4.0, Wikimedia Commons)

Di certo, un linguaggio immaginario, fu utilizzato negli anni ’70 dall’artista italiano Luigi Serafini, per scrivere la sua enciclopedia: il “codex seraphinianus”, costituito da 360 pagine e illustrato con oltre mille disegni dipinti a mano. Il codice è una reinterpretazione in chiave fantastica e visionaria di termini zoologici, botanici, etnografici, fisici, tecnologici e così via. Si potrebbe definire l’enciclopedia di un mondo alieno, che, in qualche modo, riflette il nostro, con elementi concreti che prendono sembianze surreali. Ne nascono, così, fiori galleggianti, banane contenenti pillole, vestiti particolarmente eccentrici, uomini con un pennino al posto della mano, chirurghi in bizzarri copricapi che vestono scheletri in pelle umana, versioni psichedeliche di una fauna e flora del tutto sconosciuti, ed ogni altra sorta di stranezza. A differenza di una classica enciclopedia, dunque, il “codex seraphinianus” non fissa il sapere di una determinata epoca, ed il suo contenuto non é affatto stabile, a partire proprio dall’alfabeto utilizzato: asemico e mai esistito prima, secondo la dichiarazione del suo stesso autore. Il codice divenne ben presto un libro di culto per diverse personalitá, quali Italo Calvino, Tim Burton e Federico Fellini. In fondo, un’enciclopedia fantastica, di un mondo immaginario, in una lingua inventata e priva di ogni significato, come potrebbe non risultare particolarmente affascinante?

Arriviamo, dunque agli anni ’90, con l’opera dell’artista cinese Xu Bing, “A Book from the Sky” (Tiānshū in cinese). I quattro libri che compongono la realizzazione, esteticamente, ricordano i manoscritti storici prodotti durante la dinastia Song e Ming, eppure, sono riempiti di caratteri solo simili a quelli cinesi, e che in realtà non hanno alcun significato. Le 604 pagine dell’opera, dunque, riportano 4000 caratteri differenti, del tutto inventati, e stampati utilizzando il sistema dei caratteri mobili su fogli ricavati da peri, cosí come accadeva in tempi antichi. Inizialmente, il libro, ricevette delle critiche molto aspre, tanto che spesso fu descritto dalla stampa cinese con il termine “guǐ dǎ qiáng” ovvero: “Essere occulto, giusto per il gusto di voler essere occulto” (letteralmente: “Muri costruiti da fantasmi”). Xu Bing, d’altro canto, ha esplicitamente dichiarato che “L’opera invita e nega contemporaneamente il desiderio dello spettatore di leggere l’opera” e che il vero scopo di essa, sia quello di far comprendere quanto la letteratura cinese possa, spesso, risultare “noiosa” e “tediosa”. Facile capire perchè, in taluni ambienti, non sia stata accolta con particolare entusiasmo.

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Pagine del “codex seraphinianus”
(2015, Elusive Muse, CC0 1.0 Universal, Wikimedia Commons)

Resta comunque irrisolta la questione fondamentale: perché un artista o un autore, dovrebbe scegliere di ricorrere ad un linguaggio privo di significato? Probabilmente non esiste una risposta abbastanza esaustiva, certo é che nel campo letterario, discografico e cinematografico, si è ricorsi diverse volte ai “nonsense”, e talvolta, ancora oggi, se ne fa uso. La letteratura del nonsenso, sia in poesia che in prosa, si basa sull’equilibrio tra ordine e caos, tra senso compiuto e non. Spesso presenta un mondo capovolto o alterato, ma non legato al genere del fantasy. Un esempio è la novella “Finnegans Wake” di James Joyce, in cui la tecnica del flusso di coscienza viene portata all’estremo, e le parole sembrano essere dense di significati stratificati su diversi livelli. Chiaramente, ogni forma di nonsenso rimane pesantemente legata alla lingua ed alla cultura di origine, ed è difficile, se non impossibile, una traduzione efficace. Per anni, infatti, il testo di Joyce é stato considerato intraducibile, proprio a causa del suo linguaggio onirico e polisemico, ricco di parole-macedonia, nate, cioé, dalla fusione di due termini diversi (“brunch”, per fare un esempio di uso comune). Ma il componimento in assoluto piú rappresentativo del “nonsense” é certamente il “Jabberwocky” di Lewis Carroll, in cui la maggior parte delle parole sono inventate dell’autore stesso. Nonostante ciò, molte di esse rientrano oggi nell’inglese comune e la stessa parola “Jabberwocky” è diventata, per antonomasia, sinonimo di “nonsense”. Una delle “traduzioni” (se così si può definire) italiane più celebri della poesia, é quella realizzata da Roberto De Leonardis per il film Disney “Alice nel paese delle meraviglie”, nel quale lo Stregatto (altro esempio di parola-macedonia) ne canterá ripetutamente i primi quattro versi.

Insomma, siamo di fronte all’innegabile potere delle parole: intraducibili, illeggibili, incomprensibili, ed a volte anche impronunciabili, ma con la capacità di trasmettere emozioni e significati, pur non contenendone alcuno. E se pensate che in fondo di parole ne esistano già tante, e che non sia necessario inventarne di nuove (insensate per giunta), provate ad ascoltare una delle intramontabili canzoni di Rino Gaetano, ammettete di aver alzato il volume dei vostri dispositivi con “Prisencolinensinainciusol” di Adriano Celentano, canticchiate ancora una volta la sigla del vecchio programma televisivo “Tira & Molla”, guardate il film “Amici miei” di Mario Monicelli e chiedetevi: il mondo avrebbe davvero potuto fare a meno della “supercazzola”?

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Traduzione dei primi quattro versi del “Jabberwocky”

I libri illeggibili una rubrica a cura di Angela Finelli per The BookAvisor.

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