Libri mai esistiti, volumi perduti e manoscritti smarriti [foto]

Bentornati alla rubrica “i libri illeggibili”. Iniziamo questo settimo appuntamento con una domanda piuttosto scomoda (mi raccomando, siate sinceri!): quanto spesso vi capita di perdere cose? Personalmente sarei capace di perdere la testa se non l’avessi attaccata al collo. Chiavi, portafogli, ombrelli, cellulari, … e sì… anche libri. Mi rendo conto… è orribile, ma accade anche questo… E non è un’esclusiva di noi fedeli adepti del clan degli sbadatissimi, è successo ad editori, bibliotecari, eredi, o addirittura agli stessi autori, di smarrire preziosi manoscritti. Per non parlare, poi, di tutti quei libri perduti nel tempo, di cui, inspiegabilmente, nel corso della storia, si è persa ogni traccia. Dove sono finiti? Sono andati distrutti o sono ancora nascosti in qualche luogo impenetrabile? Qualcuno li ha volutamente occultati? Tutte domande a cui gli storici cercano costantemente di trovare risposta, eppure, gran parte delle volte, non se ne viene proprio a capo. Rispetto ai libri di cui abbiamo già parlato nei precedenti appuntamenti (distrutti, bruciati, rubati, censurati e così via), le storie ricostruite di questi volumi perduti, presentano enormi lacune. È come se, ad un tratto, un enorme buco nero li avesse risucchiati senza lasciar traccia. Ad ogni modo, gli studiosi più ottimisti, nutrono ancora la profonda speranza di trovare indizi, testimonianze o addirittura i manoscritti stessi, nascosti,  in qualche vecchia soffitta, in qualche caveau sotterraneo o, magari, tra i ruderi di qualche antico edificio. Dunque, tenete gli occhi ben aperti, tirate fuori le vostre divise da Indiana Jones e prendete nota di alcuni dei libri perduti, che equivalgono a veri e propri tesori.

Iniziamo da una delle più antiche raccolte di poesie, di cui abbiamo perso quasi ogni traccia: le poesie di Saffo, datate intorno al 500 a.C. La vita stessa della poetessa greca, originaria dell’isola di Lesbo, resta per noi abbastanza misteriosa. Scarse informazioni sono state dedotte dai pochi frammenti sopravvissuti, delle opere a lei attribuite. L’unica certezza che abbiamo, è l’ammirazione con la quale i contemporanei della poetessa, descrivevano il suo lavoro: da Solone a Strabone, fino a Platone che scrisse “Alcuni dicono che le Muse siano nove; che distratti! Guarda qua: c’è anche Saffo di Lesbo, la decima”. Già, quindi, nell’antichità, Saffo fu oggetto di grande interesse grazie alla bellezza dei suoi componimenti, mentre, a partire dal XIX secolo, i suoi versi, divennero simbolo dell’amore omosessuale femminile, dando origine al termine “saffico”, nonché “lesbica” (dall’isola di Lesbo). Il poeta Anacreonte, fu uno dei primi a sostenere che la poetessa, nonché insegnante, nutrisse per le sue allieve, non solo un grande affetto, ma anche un interesse erotico. Secondo il costume dell’epoca, in realtà, la pratica sessuale tra allieve ed insegnanti donne, non era ritenuto affatto immorale, piuttosto veniva considerata come una sorta di iniziazione per la futura vita matrimoniale, oltre che una preparazione all’amore eterosessuale. Ad ogni modo, le voci narranti di molte delle poesie di Saffo parlano di infatuazioni o di amore per vari personaggi femminili, ma le descrizioni di atti fisici tra donne sono poche e, comunque, ancora oggi, oggetto di dibattito. La poetessa greca compose anche struggenti canti d’amore per le sue allieve destinate a nozze, lasciando supporre un innamoramento nei loro confronti, un esempio è l’“Ode della gelosia”, in cui confessò il profondo turbamento che la colse, assistendo ad una scena di seduzione tra una sua allieva ed un uomo con il quale ella si intratteneva. Eppure, anche in questo caso, è necessario analizzare la situazione alla luce delle consuetudini dell’epoca: la società greca era fondamentalmente eteropatriarcale, ed in essa, la donna, era considerata unicamente come fattrice di figli e responsabile delle faccende domestiche. É probabile, quindi, che Saffo, affezionata alle sue allieve, scrivesse tali odi, poiché, con il matrimonio, vedeva le giovani destinate solo ad un triste avvenire, costrette in case nelle quali sarebbero state rinchiuse a vita, come voleva la tradizione greca. Dunque, secondo questa interpretazione, le odi nasconderebbero il dolore per un destino amaro, piuttosto che per un amore tradito. Le numerose opere saffiche furono suddivise in ben otto o nove libri, di cui, purtroppo, sono state completamente perse le tracce. Rimangono oggi pochi frammenti ed un solo componimento integro: l'”Inno ad Afrodite”. Che fine abbiano fatto tutti gli altri componimenti, non è noto. Secondo alcuni storici, nel corso dei secoli, gli uomini di cultura, principalmente di fede cattolica, ritennero scandalosa la narrazione secondo la quale i rapporti intrattenuti da Saffo con le allieve fossero espressione di un sincero amore omosessuale, per cui rifiutarono di realizzare copie dei manoscritti originali, che forse, arrivarono perfino a distruggere. È probabile, quindi, che l’intolleranza e l’ignoranza, abbiano portato alla scomparsa di versi, che resteranno, così, per noi, eternamente ignoti.

Libri mai esistiti
Frammento di “Ode alla gelosia” tradotto da Salvatore Quasimodo

Mezzo secolo dopo, subirà la stessa sorte il “Mirmidoni” di Eschilo. Era all’incirca il 450 a.C., quando il drammaturgo greco scrisse la tragedia, che narra la storia di Patroclo e Achille, a partire dal rifiuto di quest’ultimo di combattere contro i Troiani, fino alla morte del suo giovane compagno, dopo aver guidato l’esercito dei Mirmidoni in battaglia. Al contrario dell’Iliade, l’opera di Eschilo descriveva la relazione tra Achille e Patroclo come un rapporto esplicitamente omosessuale, difatti, da uno dei pochi frammenti a noi giunti, si legge della loro “unione devota delle cosce”. Anche in questo caso, come per le poesie di Saffo, é necessario analizzare la questione, considerando le consuetudini dell’epoca: nell’antica Grecia, la relazione tra un uomo adulto, ed un adolescente di sesso maschile (che per legge doveva avere più di 12 anni) era normalmente accettata. Infatti, nonostante il rapporto avesse una componente principalmente sessuale, si arricchiva di una funzione pedagogica, in quanto l’uomo insegnava al ragazzo il senso civico, la cultura e l’amore, in cambio di gioia e piacere fisico. L’uomo, inoltre, aveva il dovere di prendersi cura del fanciullo, offrendogli denaro e protezione, il quale, a sua volta, giunto alla maturità avrebbe fatto lo stesso per un suo giovane amante. Una consuetudine tra i greci, che probabilmente scandalizzò, ancora una volta, i copisti cattolici, i quali, potrebbero aver riservato al “Mirmidoni” la stessa sorte delle poesie saffiche. La tragedia, per altro, doveva essere la prima parte di una trilogia, la cosiddetta “Achilleide”, composta anche da “Nereidi” e “Frigi”, ma ad oggi, di tutte e tre le opere, non restano altro che pochi frammenti. Quale sarà stato il destino dei tre manoscritti? Furono realmente i copisti cattolici ad occultarli? Furono distrutti? Furono anch’essi vittime di una bigotta ignoranza? Anche questa volta, a noi, non restano altro che un mucchio di domande senza risposta.

Conserviamo, invece, decine e decine di versioni (tutte differenti tra loro) del “Pañcatantra”, ma neanche un solo originale. Si tratta di un’antica raccolta indiana di favole in prosa e versi, diffusa già nel 100 a.C., composta da un racconto-cornice, in cui si narra di un re indiano, che affidò i suoi tre figli alle cure di un saggio. Questi, scriverà il “Pañcatantra”, costituito dalle settanta favole, che si innestano sulla cornice principale del racconto. Ogni storia, con la sua morale, avrà lo scopo di educare al meglio i giovani reali, che leggendo il testo, di lì a sei mesi, diverranno colti e saggi. “C’è chi sostiene che questo libro abbia girato il mondo ancor più della Bibbia” afferma la scrittrice Doris Lessing, ed in effetti si trovano tracce dell’opera praticamente in tutto il mondo. Apparse per la prima volta in una raccolta in sanscrito, le fiabe, divennero fonte di ispirazione per Esopo, La Fontaine, “Le mille e una notte”, “I racconti di Canterbury”, oltre a una sterminata serie di racconti popolari trasmessi oralmente lungo il corso dei secoli tanto in Occidente quanto in Oriente. In effetti, non si sa con precisione quando sia stato composto il “Pañcatantra”, ma di certo il testo originale fu tradotto in moltissime lingue, dall’indiano al pahlavi, dall’arabo all’ebraico e al greco, dal latino fino al tedesco, all’italiano e allo spagnolo. Tutte versioni diverse, in lingue diverse e pubblicate con titoli diversi. Tra l’altro, anche i contenuti sono differenti tra loro, e non avendo più a disposizione alcuna copia originale, è impossibile per noi capire, quale di esse si avvicini più alla versione autentica. Che fine ha fatto il primo manoscritto del “Pañcatantra”? Nessuno lo sa. Non è mai stato possibile ricostruirne con certezza la storia, purtroppo, ed anche in questo caso, il passato sembra averne inghiottito ogni traccia.

Libri mai esistiti
Pagina da una traduzione persiana del I libro del Pañcatantra
(2006, Zereshk, CC0 Public Domain, Wikimedia Commons)

Vittima di distrazione fu invece il romanzo “I sette pilastri della saggezza”, smarrito dal suo stesso autore: Thomas Edward Lawrence (conosciuto anche con lo pseudonimo di Lawrence d’Arabia). Il libro autobiografico racconta le esperienze di Lawrence, durante il periodo in cui fu ufficiale di collegamento con le forze ribelli, durante la rivolta araba contro l’Impero ottomano. La sua stesura ebbe una storia abbastanza travagliata, a partire dal 1916, quando l’autore raccolse tutti i diari personali con gli appunti che aveva preso nel corso della guerra, ed iniziò a lavorare alla narrazione. Scrisse a mano, senza soste, ed entro pochi mesi, la prima stesura dell’opera comprendeva già 250.000 parole. Quindi, raccolse tutte le pagine del manoscritto per portarle a Londra e farle battere a macchina… e fu allora che accadde il disastro: alla stazione di Reading, in Inghilterra, smarrì il suo bagaglio durante un cambio treno e di conseguenza, la borsa con dentro tutto il suo prezioso lavoro. Nonostante l’evento fosse stato un duro colpo per l’autore, questi si accinse, quasi subito, all’arduo compito di riscrivere quanto riusciva a ricordare della versione perduta. Lavorava di sola memoria, visto che aveva distrutto i suoi appunti di guerra dopo la prima stesura, eppure, riuscì a completarne una seconda, lunga ben 400.000 parole, quasi il doppio della precedente. Ma l’autore, non riuscì mai a dimenticare del tutto la sua versione originale, per cui, non convinto del risultato ottenuto, decise di tornare al Cairo per recuperare altri suoi appunti personali lasciati durante la rivolta. Il biplano che lo avrebbe dovuto portare a destinazione, però, si schiantò, provocandogli diverse fratture, oltre che la morte dei due piloti. Nemmeno quattro giorni dopo essere stato soccorso, Lawrence salì su un altro aeroplano e finalmente arrivò al Cairo. Recuperate le poche carte, tornò a Londra e stese, sempre a mano, una terza versione de “I sette pilastri della saggezza” poco più breve della seconda: 330.000 parole. Appena finito, bruciò la stesura precedente, che mai aveva del tutto apprezzato. Ad ogni modo, continuò a lavorare anche a quest’ultima versione per ben 4 anni, curando nei minimi dettagli la stampa e arricchendola di tavole realizzate da amici pittori. Durante questo periodo, l’autore, ricominciò, a pensare alla sua stesura originale, così, a metà del 1922, in uno stato di grave agitazione mentale, si ri-arruolò nelle forze armate sotto falso nome, nel tentativo di crearsi una nuova identità. Infine, venne convinto dai suoi amici a produrre una versione ridotta dell’opera, perché potesse essere letta da un pubblico più vasto. Nelle sue serata libere, quindi, Lawrence, si mise a riassumere il testo portandolo a 250.000 parole (così com’era nella versione perduta) e la sua pubblicazione definitiva, consacrò finalmente il mito di “Lawrence d’Arabia”. Per una banale distrazione, il povero Lawrence, smarrì non solo i bagagli ed il proprio lavoro, ma per poco non perse anche la ragione! Fortuna che ogni nostra distrazione quotidiana, non produca sempre effetti così catastrofici.

Di tutta la vicenda de “I sette pilastri della saggezza” ci resta, oggi, uno spettacolare libro, oltre che un mistero irrisolto: il manoscritto smarrito dove è finito? Chi ne entrò in possesso? È stato distrutto? Gli studiosi continuano a nutrire la speranza, che prima o poi, qualche impavido avventuriero, lo tiri fuori da un improbabile sito ancora inesplorato. Dunque, le indagini continuano, e non solo per i manoscritti che abbiamo appena citato, esiste, infatti, una lista molto lunga di libri ricercati ormai da secoli, e quanto più le loro origini, risultano misteriose o poco chiare, tanto più si intessono racconti, storie e leggende, intorno al loro presunto nascondiglio, a chi li terrebbe in custodia e a chi ne impedirebbe la divulgazione.

Thomas Edward Lawrence
(2006, Narve Skarpmoen, CC0 Public Domain, Wikimedia Commons)

Un esempio è il misteriosissimo “Libro del Cinquecento”, più propriamente detto “Libru do Cincucentu” in dialetto siciliano. Ci sono diverse storie che girano intorno a questo libro, ed alcune di esse, hanno anche un fondo di verità. In realtà, non è neanche chiaro se effettivamente il libro sia ormai perduto, se sia conservato lontano da occhi indiscreti, se sia andato distrutto o semplicemente non sia mai esistito. Una cosa è certa: gran parte dei catanesi, lo hanno sentito nominare almeno una volta nella vita, ed alcuni, addirittura, sostengono di averlo visto. La leggenda narra che il manoscritto fu realizzato intorno al 1000 a.C. e che venne ritrovato all’interno del sepolcro di re Salomone a Gerusalemme. Secondo il racconto, il libro, avrebbe fattezze enormi, talismani incisi in rilievo e conterrebbe formule ed incantesimi volti ad evocare demoni e spiriti, tant’è che spesso viene chiamato anche “Libro del Comando”, perché con esso si dovrebbe poter piegare gli spiriti al proprio volere. Sempre secondo la credenza, il libro venne trafugato dal sepolcro e da lì giunse in Sicilia, dove fu segretamente custodito per anni nella città di Catania. È possibile che il manoscritto sia ancora nascosto nel medesimo luogo, o che in realtà non vi sia mai arrivato, fatto sta, che è facile capire perché si sarebbe potuto ritenere necessario un occultamento: se effettivamente, il manoscritto, contenesse formule magiche per evocare i demoni, dal suo possesso ne deriverebbe uno spropositato e pericoloso potere. Probabilmente è per questo che una diceria popolare, mette in guardia chiunque si cimenti nella ricerca del manoscritto, avvertendo, che chiunque entrerà in possesso del mistico volume, sarà perseguitato dalla mala sorte. Secondo un’altra versione della leggenda, invece, il libro non conterrebbe formule e riti magici, ma piuttosto, rivelazioni sul futuro. Tutta la verità sull’avvenire di qualunque uomo sulla terra, svelata chiaramente, solo a chi sarà in grado di interpretare l’antico testo nel modo corretto. Un altro motivo, quindi, per tenere nascosto il libro alla maggioranza. Nonostante siano tante le persone a raccontare di aver visto le copie autentiche e tante altre raccontino di aver ricevuto rivelazioni sul proprio futuro, proprio attraverso le pagine del misterioso manoscritto, ad oggi, non si è certi che esista un originale. Lanciarsi alla ricerca di questo volume perduto, é impresa ardua, considerato che spopolano nel web e sulle bancarelle siciliane, diversi libri presentati come fedeli repliche dell’autentico “Libru do Cincucentu”, ma, per quanto ne sappiamo, potrebbero essere anche state scritte da un bambino. Non avendo a disposizione un originale o testimonianze attendibili circa il suo  contenuto, diventa impossibile stabilire quali copie siano autentiche e quali no…. sempre che ovviamente, sia mai esistito un originale da copiare.

Il “Libru do Cincucentu” ci apre, dunque a nuovi dubbi: esistono effettivamente tutti questi libri perduti, o sono solo frutto di leggende? Già con un altro misterioso volume, ci si è posti lo stesso quesito, fino a giungere alla conclusione che in effetti, il manoscritto in questione non verrà mai trovato, semplicemente perché del tutto opera di fantasia. Parliamo del “Necronomicon”, un espediente letterario creato dallo scrittore statunitense H.P. Lovecraft per dare verosimiglianza ai propri racconti. Si tratta, quindi, di uno pseudobiblion, un libro fittizio citato come fosse vero (un po’ come il “Manuale delle giovani marmotte” per intenderci). Il fraintendimento circa la vera natura del libro, nacque quando, anche altri scrittori, oltre a Lovecraft, cominciarono a citarlo nei loro racconti di genere horror o 
fantascientifico, costringendo il suo ideatore a confessare (nonostante non avesse mai sostenuto il contrario) che il manoscritto era solo frutto della sua immaginazione. Ma, nel frattempo, già troppi suoi lettori lo consideravano reale e ancora oggi non mancano le persone che cercano tracce del misterioso volume. Il “Necronomicon” viene descritto nelle opere di Lovecraft come un testo di magia nera redatto dall'”arabo pazzo” Abdul Alhazred, vissuto nello Yemen nell’VIII secolo e ucciso a Damasco da un essere invisibile. Del libro originale, secondo il racconto dell’autore, sarebbe, poi, stata fatta una traduzione in greco, nella quale già si annotava nella prefazione come l’originale arabo fosse considerato ormai perduto. In seguito, l’alchimista John Dee ed il suo assistente Edward Kelley (dei quali abbiamo già parlato nel nostro appuntamento sui libri misteriosi) ne realizzarono una traduzione in lingua inglese, della quale rimasero solo alcuni frammenti. Il libro fu messo, poi, all’indice dalla Chiesa cristiana e, via via, da tutte le religioni organizzate del mondo.

Libri mai esistiti
 Il “Necronomicon” come immaginato e realizzato da un fan
(2004, Shubi, CC0 Public Domain, Wikimedia Commons)

Di fatto, il libro, uscì dalla finzione letteraria nel 1941, grazie ad un antiquario di New York, che mise nel proprio catalogo un “Necronomicon”, con tanto di prezzo fissato a 900 dollari. Da quel momento la situazione sfuggì di mano: si moltiplicarono i riferimenti al mistico manoscritto, perfino nei cataloghi delle biblioteche, ed un giornalista, affermando di aver visto in prima persona il volume, lo descrisse come un libro scritto su fogli di pelle umana prelevata da persone uccise con fatture stregonesche. In seguito, alla fine degli anni sessanta lo scrittore statunitense De Camp, acquistò, durante un viaggio in Asia, uno strano manoscritto proveniente da un villaggio nel nord dell’Iraq. Rientrato negli Stati Uniti, raccontò la storia del suo ritrovamento, arricchendola di dettagli inquietanti, quindi lo fece pubblicare in facsimile, sotto il nome di “Necronomicon”. In realtà, già a quel tempo, gli studiosi concordavano sul fatto che il libro di De Camp fosse semplicemente un falso, realizzato con una sequenza di segni priva di significato. D’altronde, anche secondo lo scrittore britannico Colin Wilson, Lovecraft mentiva quando sosteneva che il “Necronomicon” non esisteva, affermando che il solo scopo dell’autore, fosse quello di coprire le responsabilità del padre, affiliato alla massoneria egiziana e, quindi, già in possesso di una copia del libro. Insomma, il mondo è diviso tra chi cerca disperatamente il misterioso manoscritto e chi ne nega completamente l’esistenza. E noi, a chi dovremmo dar credito?

Ma non lasciate che tutti questi complessi quesiti spengano del tutto il vostro spirito di avventura e ricordate che sono stati tanti i manoscritti ritrovati quando ormai si era già persa ogni speranza. Ad esempio i “Rotoli del mar Morto” risalenti al 150 a.C., comprensivi dei testi della Bibbia ebraica, ritrovati negli anni ’50 nel deserto della Giunea. Nello stesso luogo, pochi anni fa sono stati rinvenuti anche i frammenti della Bibbia di Zaccaria, risalente al 520 a.C.. A metà del 1700, invece, furono scoperti ben 1800 papiri contenenti testi filosofici greci, nella cosiddetta Villa dei Papiri ad Ercolano. Questi furono carbonizzati dall’eruzione del 79 d.C., che li trasformò in blocchi compatti, fragilissimi, ma ancora srotolabili. Anche gli appunti di uno studente di Hegel, raccolti durante le sue lezioni all’universitá agli inizi del 1800, sono stati ritrovati, dopo ben 200 anni in uno scatolone nella biblioteca dell’arcidiocesi di Monaco e Frisinga. E ancora: l’inedito manoscritto giovanile di Giacomo Leopardi, risalente al 1814, fu ritrovato nella Biblioteca Nazionale di Napoli poco più di 30 anni dopo la sua stesura, mentre un racconto inedito di Hemingway, del 1919, è stato rinvenuto dal nipote solo nel 2020. Infine, i manoscritti di Celin, rubati nel 1944, furono riconsegnati da un anonimo ad un ex giornalista oltre 70 anni dopo il furto.

Il rotolo dei Salmi, uno dei rotoli del Mar Morto
(1993, Library of Congress, CC0 Public Domain, Wikimedia Commons)

Quindi, non disperate, continuate a cercare e semmai doveste chiedervi perché qualcuno dovrebbe collezionare manoscritti (al di là dell’ovvio valore economico che potrebbero acquisire nel tempo), chiedetelo a Filippo Bernardini, arrestato dall’FBI per aver rubato, nell’arco di 5 anni, più di mille manoscritti di libri non ancora pubblicati. Il motivo di tali furti non è ancora chiaro, poiché Bernardini, non ha mai tratto profitto dai libri in suo possesso, non li ha mai diffusi, né tantomeno ha mai chiesto un riscatto. Semplicemente, fingendosi un professionista dell’editoria, è riuscito a farsi inviare un’enorme quantità di opere letterarie, probabilmente, solo per il piacere, di leggerle in anteprima. Una follia assolutamente inspiegabile per gli inquirenti… ma che (non diciamolo all’FBI), forse noi possiamo comprendere.

I libri illeggibili una rubrica a cura di Angela Finelli per The BookAvisor.

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