“Sedici parole” di Nava Ebrahimi: la libertà delle parole

“Sedici parole”. Solo sedici ne sceglie Nava Ebrahimi per raccontarci la storia di chi è sospesa tra due mondi. L’Iran è il primo, tragico e incantato, la Germania il secondo, libero e audace. Due poli opposti, due realtà contrastanti, due patrie differenti, eppure nessuna delle due sembra appartenere totalmente a Mona. Una bambina cresciuta in Iran sognando favole di amore puro, una donna vissuta in una Germania in cui le fiabe persiane assumono la forma di antichi desideri esotici dal gusto anacronistico.  

Mona si muove nel mondo priva di radici, senza una patria cui aggrapparsi, come un apolide in cerca di casa. Le restano solo vaghi ricordi, che a intermittenza riaffiorano simili a memorie di una vita passata,

Nava Ebrahimi (2018, Slowking4, GNU Free Documentation License)

legate indissolubilmente alla sua maman borzog, una donna forte, dura e caparbia, le cui idee non erano da mettere in discussione. È in occasione della sua morte, che Mona tornerà in Iran, una terra che non rivedeva da tempo e che mai avrebbe sentito del tutto propria. Qui, “circondata da donne piangenti con il make-up indistruttibile” rivivrà un paese natale ma estraneo, proprio come le persone che si aggirano per la casa della nonna, che alternano lacrime e pettegolezzi sulla vita di una donna,  della quale tutto andava detto sottovoce. “E sarebbe circolata la frase che avrei sentito più volte in quel giorno, …: la morte fa parte della vita. Come uno slogan pubblicitario del tutto inefficace.” 

Nava Ebrahimi ci racconta un Iran violato da una guerra e da una rivoluzione, con i cimiteri affollati da foto sbiadite di giovani spediti al fronte il cui futuro è stato reciso senza troppa esitazione “Molti avevano poco più che una peluria sopra il labbro superiore, quando è stata scattata la foto. Ora sarebbero padri di famiglia,  se non avessero calpestato una mina o non fossero stati soffocati con i gas nervini”. Un luogo ricco di contraddizioni, dove è gli attori di porno soft meritano di finire giustiziati all’istante. Una nazione di donne dalle chiome coperte e dalle chiacchiere sui chirurghi estetici che sovrastano la voce del muezzin, in cui la quantità di ammoniaca che aleggia nei saloni di bellezza fa lacrimare gli occhi ed i racconti degli interventi  della polizia morale fanno tremare le mani, rammentando che la punizione per un rapporto sessuale tra non coniugati è la pubblica lapidazione. Una terra ricca di sole e di dubbi, con le impiccagioni all’ordine del giorno ed il vento che porta “l’odore della carne grigliata, le risate della famiglia patriarcale. O i lamenti” 

(2018, أخٌ‌في‌الله, Unsplash License)

L’Iran è la patria dalla quale fuggire per non morire con una chiave in plastica dorata appesa al collo. La chiave del paradiso: la promessa fatta ai giovani inviati ancora una volta a combattere. Un paese di donne che convolano a nozze sin dai 13 anni e di genitori che lasciano la scelta alle proprie figlie. Pieno di papà che trattengono il respiro al ricordo delle loro dolci bambine e che, educatamente, quasi in apnea, ripetono ai Khastegar “per sposarsi c’è ancora tempo”. Gremito di madri che desiderano per le nuove generazioni un futuro diverso: una laurea, l’espatrio, un futuro, una vita, la libertà.    

Azadi. La libertà. Questo è il fulcro di tutta la narrazione. La ricerca di una patria che renda liberi e, dunque, irrimediabilmente felici “Quando le giovani iraniane parlano della libertà, i loro occhi brillano, come se parlassero di un oggetto di marca che non si possono permettere.” La Germania è l’altro mondo. Il paese di azadi, nel quale una donna può spogliarsi nuda di fronte ad una finestra aperta senza pudore. Una gabbia dorata per chi attende con ansia un Iran rinnovato. Un paese di parità in cui una donna musulmana diventa, a sua insaputa, oggetto perfetto di una tesi di laurea. Un luogo in cui “torna presto e non farti sposare in cambio di qualche cammello” sembra ancora una battuta divertente, dove l’idea di una polizia morale è semplicemente aberrante e le molte migliaia di donne chiuse nelle carceri iraniane meritano un intero trafiletto sul Bild. Una nazione colta in cui tutti hanno letto “Mai senza mia figlia” e, per questo, si reputano massimi conoscitori delle condizioni di vita di tutte le donne iraniane. La Germania è, d’altronde, l’unico paese in cui Mona vedrà sua madre schiaffeggiata da un uomo. Un occidente dal quale si lancia uno sguardo affascinato verso il diverso restando ben protetti da un solido muro di falsa moralità. “Alcune persone si interessavano all’Iran solo per via di questi buchi. Si occupano per tutta la vita di questo sistema di irrigazione, il qanat. Il modo in cui è stato inventato, progettato, scavato tremila anni fa. Non si interessano neanche un po’ a quello che succede intorno a questi buchi. Alla vita in superficie. Al prezzo del pane o alla sharia. Alla tristezza, alla rabbia o al disprezzo che le persone che vivono qui provano…”  

(2016, Wälz, Pixabay License)

E se il mondo non offre un luogo sincero e completamente libero, Nava Ebrahimi questa libertà la troverà nelle sue parole, pregne di un significato potente e mai edulcorato “seguendo un’ispirazione, tradussi una parola, e fu come averla disarmata….D’un colpo, aveva perso il suo potere su di me. Come in una fiaba, attraverso la traduzione avevo spezzato l’incantesimo che gravava sulla parola, e mi ero liberata dalla prigionia. Ora eravamo entrambe libere, la parola ed io.”. Solo grazie ad esse, Mona riuscirà a far luce sul suo passato e sulle sue origini, poiché dare un nome alle cose significa svelarle, eliminare il fitto velo bugiardo che ne nascondeva la reale essenza.  

Nava Ebrahimi sceglie 16 parole per raccontare la sua storia, eppure non basterebbe un intero dizionario per descriverne l’intensità. 

Avrei voluto proseguire all’infinito. Sempre avanti verso ovest, oltre l’aeroporto, nei territori curdi dell’Iran, nei territori curdi dell’Iraq, attraverso la Siria, e prima di fare un tuffo nel Mediterraneo, senza nient’altro che mentine nella pancia, avremmo forse avuto la rilevazione della nostra vita. In seguito non avrei mai più sperimentato con tanta urgenza il desiderio di non arrivare mai.

“Sedici parole” di Nava Ebrahimi, edizione Keller Editore.

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