“La saga dei Florio” di Stefania Auci: recensione libro

Stefania Auci, con i due romanzi storici “I leoni di Sicilia” e “L’inverno dei leoni” che compongono “La saga dei Florio”, conduce il lettore attraverso la storia di una famiglia partita dal nulla: da u’ bagnaroto che per primo avvertì la necessità di un cambiamento, un desiderio incomprensibile ai più, o giudicato, al massimo, come una futile fantasia. Eppure i Florio, di origini calabresi, divennero tra l’Ottocento e l’inizio del Novecento una delle famiglie più ricche d’Italia. Protagonisti della Belle époque a Palermo, diedero vita ad un vero e proprio impero industriale che spaziava dalla chimica al vino, dal turismo all’industria del tonno. Ciò nonostante, continuarono a combattere ogni giorno, generazione dopo generazione, perché il proprio nome venisse salvaguardato ad ogni costo, perché divenisse simbolo di prestigio e potere, perché suscitasse invidie e ammirazione, sempre e comunque, a costo della felicità, della famiglia, dall’amore, della vita stessa se necessario. “Ma tu si’ e resterai u’ bagnaroto, anche se te ne vai alla corte dei Borbone. Non si può cancellare quello che uno è, per quanto profumo di soldi si butta addosso. E tu sei uno che vende cose con uno schifazzo comprato in società con un cognato che continua a trattarlo da servo.”

Ignazio e Franca Florio con i figli Giovanna e Ignazio (1093, Palermoviva, CC0 Public Domain, Wikimedia Commons)

Un storia fatta di impegno, sudore, fatica, scelte azzardate, decisioni sbagliate e speranze ben riposte, come quella di lasciare Bagnara Calabra, nel lontano 1799, quando la terra tremando, scuote le fondamenta di una casa assopita e il tempo esplode in un milione di interminabili istanti, mentre tra angosce e paure, riemergono infanzie segnate dalla perdita. “Ignazio abbassa lo sguardo sulla cognata. Nel momento in cui Giuseppina alza gli occhi e incontra i suoi, il giovane capisce che pure lei è braccata dai ricordi. Parlano un’unica lingua, abitano lo stesso dolore, si portano dentro la medesima solitudine.”

Un racconto ipnotico che procede tra amori sbagliati, carezze affilate come rasoi, insoddisfazione, orgoglio, tenacia, rabbia, disperazione, il risentimento come una spina allo stomaco e i lunghi amari silenzi. Quando ancora è il sangue nobile a fare la differenza, seppure vestito di abiti lisi, mentre l’umanità stipata nei vicoli, un unico agglomerato di lingue e accenti, si fonde in una voce sola che sale disperata per urlare al cielo un desiderio di libertà. “Si tuffa. L’acqua entra fra i capelli, gli avvolge le braccia. È vero, il mare accoglie. Riemerge. Respira. Fuori è freddo, ma che importa? Si sente libero, leggero e vorrebbe gridare, perché per un istante il suo buio, quello che si porta dentro da una vita intera, è sparito. O, perlomeno, è confinato ai margini della coscienza. Quello è il momento della leggerezza, di una gioia sconosciuta che gli esplode dentro, che lo fa ridere e piangere. Se la felicità è questa, è strana, perché non pensava che potesse essere così bella e insieme fare tanto male.”

La tonnara di Favignana in un dipinto di Antonio Varni (2009, Kalós – luoghi di Sicilia, CC0 Public Domain, Wikimedia Commons)

Ricordi spietati, cattivi, molesti, come filo spinato che ferisce solo a sfiorarlo, un abbraccio che odora di acido, l’ultimo, quello che non si cancellerà mai. Memorie di amori mai vissuti, che percorrono lembi di cicatrici immaginarie. Altri rinchiusi in poche occhiate da dietro una tenda, e tanto basta ad accendere i cuori malandrini. E più ancora, i desideri, cui non si ha neanche il coraggio di dare un nome. “E allora capisce che esistono amori che non portano questo nome, ma che sono altrettanto forti, altrettanto degni di essere vissuti, per quanto dolorosi.”

Un dono che pesa più di un’armatura, le cose mai dette che legano più di un amore programmato, un uomo che libera un dolore troppo grande senza far rumore, un “ti voglio bene” sussurrato ad una figlia che non avrà mai risposta, la gente maligna che sa solo ricordare quando piedi fasciati da costosi stivali, un tempo, sguazzavano nudi nel fango, e intanto la vita in un solo istante vacilla, cade, si infrange, scagliando ovunque frammenti di dolore e lacrime. Non resta altro che un bacio, per sigillare una promessa. “Ridono insieme, come se la vita fosse un immenso scherzo, (…), come se potessero tornare indietro e rimettere tutto a posto. E invece no, ed è questa la cosa buffa: che è tutto vero e che non ci sarà pace, tutto rimarrà irrisolto, interrotto, spezzato.”

Villino Florio all’Olivuzza (2017, GiuseppeT, CC BY-SA 4.0, Wikimedia Commons)

Il richiamo del mare, nelle orecchie, sotto la pelle, nel sangue. Una tragedia silenziosa che solo il mare avrebbe potuto consumare tra i suoi flutti, con la sua essenza di schiuma e di vetro. Una fimmina che è solo malacarne e dalla quale nascerà un amore nuovo, più forte, eterno, sanguigno: il masculo, che di lì a poco, solo bussando alla porta della vita, cambierà ogni cosa. “<<Sangu meo>> gli dice. <<Ciatu meo, cori di lu me cori.>>”

Poi il tempo, inclemente “che prende e basta, non restituisce nulla; anzi brucia e rende cenere i ricordi”, che non rispetta il dolore, e l’ultimo respiro di uomo rinasce così, nel primo di un bambino. L’odore di garofani freschi che si attacca all’anima più che alla pelle, il dolore spietato di uno scoglio che non vive senza il suo mare, un cuore che si infrange contro un muro di dolore. La mancanza, la malattia più lunga della vita, senza cura, senza pietà, vestita dei sorrisi più belli, perché non ferisca coloro che hanno avuto il lusso di poter dimenticare. “E ora pensate che io possa fare a meno dell’uomo che ho amato più di me stessa solo perché Dio se l’è preso?”

Stefania Auci

Un messaggio. Il ricordo di un lungo amore mai esistito, la nostalgia del mai accaduto nascosto tra le righe impresse su carta d’Amalfi. Inchiostro capace di mordere un cuore innamorato, di rendere distanti due persone unite dallo stesso letto e divise da un muro di dolore infinito. “La vera maledizione della felicità è non rendersi conto di quando la stai vivendo. Nel momento in cui ti accorgi di essere stato felice, non ti resta che l’eco.”

E nel frattempo il mondo cambia, mutando in peggio, precipita in una corsa incontrollata che conduce solo alla disperazione, alla paura, all’abbandono di un sud ormai ben lontano dal resto d’Italia. Incomprensibile agli occhi di un regno di cui non si è mai sentito parte integrante. Alienato, reietto, ignorato, il terreno fertile per una criminalità che arriverà a radicarsi nel profondo cuore di terre meravigliose, appassite ormai dalla povertà, dalla disoccupazione, dalla sfiducia e dalla paura di perdere quel poco che ancora resiste. Una realtà invisibile, che non esiste solo affinché nessuno mai ne parli. “No, nulla sapete, voi del Nord. Vi credete santi e non avete capito che si arriva al paradiso soltanto se si conosce cos’è il peccato. E, in Sicilia, il peccato cui nessuno sfugge è quello di sapere e non poter parlare.”

Poster pubblicitario del Marsala Florio (2019, Sailko, CC BY 3.0, Wikimedia Commons)

Un passato fatto dagli uomini, tra potere, soldi e successo, ma soprattutto da donne, di pietra e cristallo, capaci di accarezzare ferite ancora sanguinanti con le mani delicate di una madre o di stringersi a un uomo con la passione di un corpo che esige piacere. Pronte ad andare in mille pezzi e a combattere senza sosta, pronte ad infrangersi, ad amare, a graffiare, a non arrendersi di fronte a nulla, perché questo è il destino dell’essere donna, questa è la sola forza che può donare la vita. “Le femmine sono più forti, vita mia. Più forti di tutto perché conoscono la vita e la morte e non hanno pura di affrontarle.”

Tutto questo è “La saga dei Florio” e Stefania Auci lascia che il lettore provi ogni cosa: il dolore straziante, il vuoto sotto i piedi, il peso dell’essere fimmina, le vertigini che provocano le parole appassionate, la carne traditrice, amore e disperazione che partoriscono le più dolorose bugie, l’odio che si nutre di ‘mmiria e raggia, l’assenza che dilatandosi travolge l’anima. Con una prosa scorrevole, ma mai banale, riesce a toccare profondità inaspettate. Arriva in fondo al cuore, lo travolge, lo afferra, lo sciupa, lo cura, ed anche se il secondo volume non è piacevole quanto il primo, riesce comunque ad affascinare, tracciando una linea discendente per una famiglia capace di volare in alto, per poi, lentamente ricadere verso il vuoto. Resterà solo un segno, un vecchio tatuaggio sulla pelle della Storia che evoca ricordi di una grandezza ormai smarrita, mentre al vento si affida la voce di un ultimo addio, trasportato dalle onde del mare, perché raggiunga un cuore ormai lontano. “Comprende le parole impastate che nessuno sa intendere, capisce cosa significano. Gli occhi le si velano di lacrime, perché sa pure che lui non le dirà mai parole d’amore. Dovrà essere lei a farlo per entrambi. Si siede davanti a lui, (…) Dice le parole che mai ha osato dirgli, mentre la carne si lacera e il cuore le si spezza. <<Sì, amore mio. Mi hai amato abbastanza.>>”

La donna è preoccupata, infila le mani in tasca. Ignazio sente il tintinnio dei grani e dei tari che vengono contati. <<Per stavolta non lo pagate. Statevi tranquilla>>, dice infine. Lei quasi non ci crede. Prende i soldi, li mette sul bancone. <<Ma l’autri…>> Paolo le mette una mano sul braccio. <<Gli altri sono gli altri e fanno quello che vogliono. Noi siamo i Florio.>>

È così che inizia tutto.

“La saga dei Florio” di Stefania Auci, edizione NORD.

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