C’è un punto in questo romanzo di Raffaele Riba dove La custodia dei cieli profondi diventa anche un saper lasciare andare.
Quando gli ultimi libri toccano il fondo, cominciano a salire volute di acqua nera, inchiostro senza più lettere né senso che all’inizio è filiforme come il fumo di una sigaretta, poi sempre più ampio e slabbrato, finché la corrente superficiale non lo mescola e lo schiarisce; e lo porta via, fuori dallo scantinato, fuori da Cascina Odessa, lungo tortuose anse che lo consegneranno allo Stura e dopo al Tanaro, attraversando le Langhe e il Roero e poi, poco prima del confine con la Lombardia, al Po, e da lì fino al mare, disciolto nella memoria dell’acqua come formule omeopatiche che curano l’oblio con la dispersione.
A mio fratello il sapere, a me la cura.
“Custodire: v. tr. [dal lat. custodire, der. di custos –odis «custode»] 1. a. Fare oggetto di responsabile vigilanza, sorvegliare, sia un luogo; b. Di persone o animali, averne cura, assisterli provvedendo alle loro necessità; c. Preservare da pericoli; d. Conservare con cura; 2. tosc. Mantenere, nutrire”. La Treccani esplica meglio il significato della parola ma il senso del romanzo è qui, in questo termine.
La custodia dei cieli profondi: un richiamo alla morte annunciata
Diventa un percorso verso una morte già scritta, una fine che Gabriele cerca di rimandare e poi di accelerare, fuori da ogni convenzione sociale. Resta da solo fra la polvere che brilla sotto una luce che nell’Universo è già scoppiata e ha smesso di brillare. Riba sceglie la fisica e l’astronomia per raccontare la desolazione e la rassegnazione che sono parte di lui da una vita.
Nello stesso istante, però, mette blu su bianco il legame alle cose, agli odori e alle particelle che rimandano ad altro ancora. Il lettore si troverà davanti una storia senza tempo, che accompagna il lettore che è in grado di attendere come accade in Melancholia di Lars von Trier.
Acquista qui La custodia dei cieli profondi