“Shorts” di Vitaliano Trevisan, recensione: Un libro tra le mani

SHORTS di Vitaliano Trevisan.

Era da un bel po’ che volevo avvicinarmi a questo autore da poco scomparso, conoscere la sua visione del mondo e immergermi nel suo animo complesso e tormentato.
Ma qualcosa continuava a frenarmi.

Una cosa stupida, una suggestione.
Molti anni fa vidi un film di Garrone, “Primo amore“, in cui Trevisan interpretava (ma ha collaborato anche nella scrittura) un ruolo terribile, quello di un uomo psicopatico, ossessionato dalla magrezza delle donne, che in modo subdolo induce la sua compagna ad un dimagrimento estremo e ad una schiavitù alimentare, fisica e soprattutto psicologica.
Ecco, non sono più riuscita a scindere quell’immagine dallo scrittore.

Shorts di Vitaliano Trevisan

Ma il momento di superare questa impasse finalmente è arrivato e ho voluto fare un assaggio lampo della sua scrittura con questo libro di mini-racconti, shorts, “corti” appunto.
Malinconici, crudeli, ironici, sarcastici, alcuni sorprendentemente sentimentali, ma di un sentimentalismo che non ha nulla a che vedere con il melenso.
Dentro vi ho trovato paure, fragilità, ossessioni, quotidianità e attimi di felicità dell’uomo contemporaneo, l’uomo comune (in particolare della provincia vicentina), che lavora, va al bar, mangia, ascolta la musica, si innamora, si disamora, uomini soli che aspettano (Godot), che perdono accendini Bic, che trovano quadrifogli, che seppur adulti temono ancora il lupo cattivo dell’infanzia…

Piccoli momenti, fugaci riflessioni.

In ogni racconto traspare una buona dose di inquietudine interiore e di ricerca del senso stesso della vita.

“Le tenebre si fecero piú vicine. Il buio mi si faceva addosso. Lo sentivo entrare attraverso il naso, la bocca, gli occhi…
Ma ecco, proprio quando pensavo di non avere piú scampo, di essere diventato un’ombra, una gradazione del nero, un pezzo di tenebra, alzai gli occhi al cielo.
Stelle, pensai.”
(1993)

Molto molto bello, un “corto” in particolare mi ha colpito, “Prestoprestissimo“.

Mi accesi una sigaretta – la terza?, la quarta? – e aprii un po’ il finestrino. Cosa sarà successo?, mi chiedevo, qualcosa dev’essere successo per chiamarmi cosí, alle quattro del mattino. Di domenica! Sua madre, pensavo, è successo qualcosa a sua madre! Ma lei è sempre cosí contenuta, sempre attenta a non darmi troppo da pensare. Fai presto, aveva detto al telefono, piú presto che puoi. Faccio colazione e arrivo, no, aveva detto, ti prego vieni subito. Ma… Subito, subito, ti prego, parti subito o sarà troppo tardi. E cosí, senza nemmeno sciacquarmi il muso, mi ero vestito e mi ero messo in macchina e mi ero acceso una sigaretta e poi un’altra. Ed ero nervoso, anzi di piú: ero agitato preoccupato in apprensione, con tutti i pensieri peggiori del mondo: morte, malattia, incidente eccetera. È vero che lei mi ha detto di non preoccuparmi. Non preoccuparti, mi ha detto, ma questo si dice sempre, specie quando c’è effettivamente di che preoccuparsi. Non ti devi preoccupare è una frase tipica, pensavo guidando il piú veloce possibile, una frase che si dice sempre e comunque, ci sia o non ci sia motivo di preoccupazione. Cosí uno non sa mai se deve preoccuparsi o no, e allora si preoccupa. Io mi preoccupo!, e piú mi dicono no, non preoccuparti, non c’è niente di cui preoccuparsi, piú io mi preoccupo. Almeno fino a quando non so esattamente di che cosa non mi devo preoccupare. È cosí, che ci posso fare? Mi accesi un’altra sigaretta – la quarta?, la quinta? – e diedi una profonda boccata. E poi alla Rivella, pensavo, al cimitero della Rivella alle quattro e mezza del mattino, e non dovrei preoccuparmi! Presto presto, aveva detto, prestissimo, o sarà troppo tardi. Troppo tardi per cosa?, pensavo, cosa cazzo sarà successo? E intanto seconda, terza, ancora seconda, poi terza e su per la collina verso il cimitero. Prestoprestissimo fino in cima alla collina. Fortuna che a quest’ora non c’è traffico, pensavo. Arriverò in tempo, non lo so per cosa, ma arriverò in tempo. Ecco, sono arrivato. Parcheggiai. Scesi. Mi avvicinai a lei. Mi stava aspettando sul piazzale davanti al cimitero, seduta su una panchina. Mi girava le spalle. La chiamai. Non si voltò. Traversai la strada di corsa, senza guardare. Mi sedetti vicino a lei. Mi guardò un attimo, ma girò subito la testa e riprese a guardare dritto davanti a sé. Sono qui, dissi, eccomi, sono qui. Ho fatto prima che ho potuto. Cos’è successo?, cosa c’è?, sono qui, eccomi. Mi prese la mano e fece un cenno col capo. Il cenno voleva dire: guarda. Girai la testa e guardai verso est, giú verso la pianura, dove guardava lei. Vidi un’alba bellissima.

(1995)

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“Shorts” di Vitaliano Trevisan, Einaudi editore . Un libro tra le mani.

 

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