“Il fuoco che ti porti dentro” di Antonio Franchini: bello con livore

IL FUOCO CHE TI PORTI DENTRO” di Antonio Franchini 

(Marsilio Editori, 224 pagine)

Sono giorni che rimugino su questo libro, che mi domando se mi sia piaciuto, quanto e perché.

E già questa indecisione, questo interrogarmi, è indice che in qualche modo qualcosa ha smosso, che mi ha provocato emozioni contrastanti.

Non ho dubbi sulla bellezza della scrittura, Franchini è davvero molto bravo, ha calibrato in modo perfetto e sapiente l’alternanza dell’italiano e del dialetto, ti fa entrare nella sua famiglia, guardi, ascolti, senti tutto come se fossi lì, riesci a dare corpo alle voci, a percepire gli sguardi, gli odori, i gesti…

Persone, non personaggi.

É capace di passare da momenti poetici, lirici, di grande bellezza, a situazioni cariche di ironia pungente, quasi grottesche, che delineano perfettamente un certo tipo di approccio esistenziale.

Racconta una storia famigliare, personale, ma nel farlo fotografa un determinato momento storico-sociale-politico, con tutto quello che si porta dietro: modo di vivere, di pensare, di parlare…

Quindi dov’è il dubbio? Qual è la ciglia che, entrando nell’occhio, mi provoca questo piccolo fastidio?

Il livore.

Il livore rivolto verso Angela, che traspare da ogni parola di suo figlio.

La condanna senza appello né attenuanti come madre, come donna, come figlia, come moglie, tutto… come se davvero non si potesse salvare nulla in lei, marcia fin dentro il midollo.

Ecco, faccio fatica a metabolizzare l’immagine così tranchant di questa donna.

Ma andiamo per ordine…

L’incipit porta con sé un non so che di violento, ancora non sai nulla di questa donna, Angela Izzo (madre dell’autore), ma già vieni messo al corrente di un particolare tanto sgradevole quanto intimo, come una vera è propria “violazione“.

“Benché da molti sia considerata una bella donna, mia madre puzza.

Tra noi se ne parla senza allusioni.

«Pare ’e trasì dint’ ’a grotta d’ ’o cane»…

[…] Forse è la vasta cicatrice slabbrata, che come un cratere di carne devasta il suo ventre operato poco dopo la mia nascita, a giustificare il marciume che le fermenta dentro ed esala il fetore inconfondibile.”

Letterariamente bellissimo, uno di quegli incipit da cui io vengo folgorata (e difatti così è stato).

Umanamente terribile.

Cerco il mostro…

E allora mi dico, ok, per meritare un simile trattamento dev’essere stata per forza un essere orribile, un mostro a tre teste dalla fame insaziabile… e proseguo.

“Angela odia sia per differenza sia per affinità, e per affinità, come è in genere naturale che accada, odia ancora più intensamente. Ha bisogno di odiare come di respirare, sente di non esistere se non si contrappone.

Gli amici non esistono, le donne sono zoccole e gli uomini figli di zoccola, l’unica cosa che conta è il tuo sangue, ma anche dei parenti farai bene a diffidare, perché è soprattutto su di loro che eserciterai la tua sorveglianza. Sui figli il controllo, sugli altri consanguinei la condanna, e su tutto il resto dell’umanità diffidenza o indifferenza.

E questo stillicidio di egoismo e diffidenza mi arriva addosso mattina, mezzogiorno e sera, ogni anno e per anni e anni, e lo avverto prima con estraneità e sospetto, poi con estraneità e fastidio, poi con estraneità e rabbia.”

Proseguendo incontro una donna egocentrica, narcisista, invadente anche in maniera violenta (soprattutto con la figlia più grande), una donna abituata a lamentarsi di tutto e tutti, a cui piace parlar male di tutto e tutti, ma che adora ingigantire le proprie disavventure, e che ha bisogno di tutto questo per “essere”, per definirsi (io a tutto questo do il nome di “insicurezza”).

Angela è cattiva per senso d’inadeguatezza, per senso d’inferiorità, è una di quelle donne che preferisce attaccare prima di essere attaccata, sempre sulla difensiva perché, in un certo senso, è da sempre e per sempre in guerra con il mondo.

É figlia del suo tempo, figlia della guerra, figlia della sua educazione, di una madre che è stata anaffettiva con lei, che non le ha insegnato l’amore, la cura, e che le ha trasmesso tutto il suo qualunquismo, razzismo, egoismo, opportunismo, il suo rancore generalizzato…

“Lei e sua madre sono questo: pensano male, pensano solo al male, immaginano solo il male. Peggio, non al male ma a quello che è il male secondo loro. Lo sospettano dovunque, lo vedono. Anzi, lo prevedono. Non penso alla fatica che fanno a vivere così, non penso a loro con pena o commiserazione, penso solo che mi fanno schifo.

Mi fa schifo chi mi ha messo al mondo.”

Ecco, la brutalità con cui la definisce non lo rende, alla fine dei conti, tanto diverso da lei.

L’odio, il livore, il rancore di Angela che l’autore tanto disprezza e da cui vuole prendere le distanze, è presente in ogni sua esternazione.

Per carità, sono assolutamente d’accordo nel non santificare “a prescindere” la figura materna, le madri possono essere pessime e causare molti problemi nei figli, ma qui sembra di assistere ad una sorta di vendetta, alla soddisfazione di poterla definire “ripugnante“, di poterla ridicolizzare davanti a tutti, senza che lei neanche lo sappia e possa difendersi.

Non c’è un velo di pietas neanche nel momento della sua morte, solo il dovere di esserci.

(Il fatto che l’autore, a fine libro, si giustifichi dicendo che lei sarebbe stata contenta di un libro su di lei, anche negativo, purché facesse di suo figlio uno scrittore, mi fa capire che in fondo c’è, da parte sua, una presa di coscienza sulla natura altamente denigratoria di questo testo).

Insomma, un libro molto bello che mi ha messo molto a disagio.

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“Il fuoco che ti porti dentro” di Antonio Franchini, Marsilio editore . Un libro tra le mani.

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