“Stelle vaganti” di Tommy Orange: l’eredità del genocidio dei nativi americani

Storia, identità, territorio. Radici, frammentazione, senso d’appartenenza. Sono questi gli elementi su cui Tommy Orange costruisce il suo ultimo romanzo “Stelle vaganti”, edito dalla casa editrice Mondadori. Dopo il fortunato “Non qui non altrove” (Frassinelli, 2020), l’autore statunitense torna in libreria con un libro il cui focus è sempre rivolto ai nativi americani, ma questa volta lo sguardo è, se possibile, più profondo.

L’identità più intima

Perché l’obiettivo è indagare sull’identità più intima, quella che non affiora a prima vista, quella che combina retaggio del presente e del passato, quella identità che appare a volte sfumata e che, osservandola da vicino, dimostra di avere diverse crepe. Ecco, è proprio lì che cerca di incunearsi Tommy Orange, all’interno di quelle piccole fessure che appartengono all’identità dei nativi americani di oggi, piccole aperture che quasi non si vedono perché nascoste da abiti moderni, ma che tuttavia sono lì ben presenti: cicatrici che non sanguinano ma che continuano insistentemente a pulsare, come a ricordare che il tempo può sì guarire e rimarginare, ma di certo non cancellare.

“Ma quando il sole squarciava le nubi con la sua luce accecante mi prendeva di sorpresa e mi riportava in Florida, davanti a quel fotografo che si era infilato sotto il panno nero del suo apparecchio e aveva catturato le nostre immagini, la prima quando eravamo appena arrivati alla prigione-castello e l’altra nelle nostre uniformi militari. Le foto erano state pubblicate sul giornale locale. Pratt voleva far vedere a tutti come potevano essere trasformati gli indiani. Prima e dopo, ci aveva detto per spiegarci il modo in cui erano state disposte una accanto all’altra per mostrare come eravamo e come eravamo diventati. L’orgoglio della civilizzazione, aveva detto, ma io avevo odiato la mia immagine in quella foto. Sia la prima che la seconda”. 

Ed è inevitabile tornare indietro alla storia più dolorosa se si vuol capire ciò che si è oggi: il massacro di Sand Creek, il genocidio degli “indiani d’America”, il successivo processo di cancellazione della lingua e delle tradizioni dei nativi in nome dell’assimilazione alla cultura coloniale. Una identità, dunque, strappata, cancellata a forza, poi modificata e rimodellata secondo i canoni definiti “moderni”. Cosa rimane di tutto questo ancora oggi?

Né qui né là

Rimane un senso di disorientamento, il vivere contemporaneamente il “qui” e il “là”, vale a dire tra due mondi agli antipodi: da una parte la società moderna, la vita metropolitana, quella attuale, con tutti i suoi punti di riferimenti inculcati e assimilati; dall’altra, ciò che definiamo le origini, le radici identitarie, le eredità culturali. Benché massacri e stermini di massa non siano più pratiche attuali (quanto meno verso i nativi americani), benché il processo di assimilazione sia concluso ormai da decenni, la dicotomia tra passato e presente continua a disorientare, a frammentare le identità, divise tra due modelli che non si riconoscono e che, a volte, si combattono. Ed è questo il punto esatto in cui si palesa la necessità di sviluppare un senso d’appartenenza verso qualcosa di concreto, una boa alla quale aggrapparsi che possa aiutare a far respirare quelle crepe e far sì che non si allarghino ulteriormente: un punto di riferimento, dunque, che permetta di coniugare vita presente ed eredità del passato.

Stelle vaganti parla di questo, del cercarsi per ritrovarsi in uno spazio, e in un tempo, che “non è qui né altrove”, della necessità di aggregarsi per ricreare un senso di comunità e trasformare gli spazi urbani della società moderna in presidi di solidarietà, di resistenza e di sopravvivenza storico culturale. Non solo per recuperare il proprio passato ma, soprattutto, per rintracciare, recuperare e ridefinire quella identità che la storia ha tentato di diluire e cancellare.

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“Stelle vaganti” di Tommy Orange, edizioni Mondadori. Libri in Pillole.


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