Alcuni libri hanno una scrittura di pancia, nel senso che la storia segue ciò che l’autore sente di getto, quasi fosse un taccuino senza sponde. In quei libri lì, la scrittura non è solo un racconto, ma anche una rappresentazione, la drammaturgia di qualcosa di nuovo, mai visto. Allora, il lettore sente, combatte e diventa egli stesso l’anima dei personaggi.
Lo scrittore gli para innanzi un vortice di fatti, di sensazioni, tanto che la vita stessa appare ruvida. E quando è cruda, spoglia di smancerie fastidiose che non c’entrano nulla con quelle esistenze dure votate all’incertezza, alla precarietà, tutto viene percepito come un pugno nello stomaco. Non esiste alcun confine tra la realtà ed il subbuglio emotivo. Ogni cosa finisce nella centrifuga degli stati d’animo, della visione che si ha dei giorni che passano come treni. Salirci non è da tutti. A volte si è costretti, certo. Non si ha alcuna possibilità di scelta, ti muovi e basta. Ti sbrighi evitando di non perdere quell’unica possibilità che ti resta e così sbrogli anche le maglie di un destino che si annuncia appena appena e che non è bello.
In Piccole morti di Ivana Sajko viaggi insieme al protagonista, uno scrittore fallito, che prende il treno da una località sulla costa meridionale dell’Europa per arrivare a Berlino. Il suo è un tornare e partire nella città che ha segnato l’immaginario della sua infanzia. La decisione di fare le valigie è data dalla fine di una relazione. I suoi pensieri corrono, scivolano sul taccuino e intrecciano ricordi personali e riflessioni sull’odierna situazione europea, sulle disuguaglianze sociali, sulla violenza e sulle pratiche disumanizzanti a cui devono sottostare i migranti.
Il libro è ipnotizzante. La scrittura non conosce i punti, solo con l’inizio di nuovi capitoli si mette fine a dei lunghi pensieri. Essa è forte, è un flusso continuo di emozioni. È superba.
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“Piccole morti” di Ivana Sajko, edizioni Voland. Dream Book.