“Ci misi tre anni a scriverlo nei miei ritagli di tempo. E procedetti così: Quand’ero lasciato solo cercavo di convincermi d’essere io stesso Zeno. Camminavo come lui, come lui fumavo, e cacciavo nel mio passato tutte le sue avventure che possono somigliare alle mie solo perché la rievocazione di una propria avventura è una ricostruzione che facilmente diventa una costruzione nuova del tutto quando si riesce a porla in un’atmosfera nuova. E non perde perciò il sapore e il valore del ricordo, e neppure la sua mestizia. Io sono sicuro che Lei m’intende.”
Ettore Schmitz a Eugenio Montale, 17 febbraio 1926
[Italo Svevo, Lettere. A cura di S. Ticciati, Milano 2021]
Nel 1904, l’auto-esiliato scrittore irlandese James Joyce e la sua compagna Nora Barnacle arrivano da Zurigo a Trieste, città asburgica, dove lui ha trovato un lavoro come istruttore di inglese alla Berlitz School in via S. Nicolò nel centro storico di Trieste. Purtroppo li attendeva una brutta notizia: il posto di lavoro lì non c’era ma ne troverà un altro a Pola in Istria. Per il ventiduenne Joyce, Pola è “un luogo fuori della grazia di dio – una Siberia navale.” Rimane per poco a Pola e poi ritorna a Trieste, ma nel Marzo 1907 si trasferisce con Nora e il figlio Giorgio a Roma per ragioni economiche. Non è che lui ami Roma: città “che si mantiene esibendo di fronte ai turisti il cadavere di sua nonna”. Già nel 1907 Joyce torna a Trieste e questa volta trova lavoro alla Berlitz School.
Trieste e il suo porto, storico accesso dell’Impero Asburgico al Mediterraneo, già nella seconda metà dell’ottocento hanno perso gran parte della vecchia importanza economica in un mondo di rapidi cambiamenti, ma Joyce ama la città.
A Trieste Joyce è stato un docente di buona reputazione, molto stimato e ricercato già prima della sua partenza per Roma. Così ritorna a Trieste e trova le sue vecchie conoscenze. E proprio nel 1907 accade un evento improbabile: il brillante docente di inglese e autore emergente, poi di fama mondiale, adesso a 25 anni, incontra un autore triestino, 20 anni più vecchio di lui, che si chiama Ettore Schmitz, il quale sotto il nome di Italo Svevo ha pubblicato due romanzi in italiano nel 1892 e 1898, “Una vita” e “Senilità”, ambedue con scarso successo.
L’incontro fortuito dei due personaggi è certamente un evento improbabile, ma dato il numero di abitanti (Trieste nel 1907 ha circa 187 mila abitanti) non così sorprendente. Svevo è un classico esempio della biculturalità mitteleuropea di Trieste, parla sia tedesco che italiano (il suo italiano però viene spesso snobbato per il suo dialetto triestino). Nel 1907 Svevo è un uomo d’affari, è un “ex scrittore”, che infatti si mette in contatto con Joyce per migliorare il suo Business English. All’inizio si parla di lezioni a domicilio. Ma passo passo fra i due letterati si sviluppa una profonda amicizia; ambedue consapevoli che non si può separare la vita dalla letteratura. I due hanno tante cose in comune, tante storie e tanta storia da condividere. L’uomo d’affari Svevo, a causa del suo contatto con Joyce, riceve una vera e propria scossa che porta ad una rinascita dell’autore Svevo. Oggi Svevo è considerato uno dei più importanti autori italiani del ventesimo secolo. Secondo la leggenda (originata da Stanislaus Joyce, fratello di James, anche lui trasferito a Trieste) questa scossa è stata originata dalla lettura ad alta voce da parte di James Joyce del suo racconto The Dead (scritto nel 1907 a Trieste) ai commossi coniugi Svevo nell’autunno 1907. Poco dopo Svevo si presenta ad uno stupito Joyce con due copie dei suoi romanzi del 1892/98. E Joyce rimane senza parole al confronto dell’alta qualità letteraria di queste opere.
The beginning of a beautiful friendship
Questo incontro di Joyce e Svevo è “the beginning of a beautiful friendship”, amicizia fondata su una profonda affinità e grande affetto tra i due personaggi. L’anglista e traduttore Enrico Terrinoni (autore della recente nuova edizione bilingue dell’Ulisse di Joyce) nel 2023 ha dedicato un libro al periodo 1906 – 1915, anni nei quali Joyce e Svevo hanno vissuto a Trieste: “La vita dell’altro. Svevo, Joyce: Un’amicizia geniale.” [Bompiani]. Il libro non parla solo di due scrittori ma offre un dettagliato sguardo sulla società triestina di questi anni. Terrinoni parla di tutto questo sempre correlando, allineando vita e letteratura dei due autori in una comparativa biografia intellettuale, ampliando la “fascia oraria” oltre il 1915. Parla delle numerose connessioni delle due famiglie a Trieste, delle mutuali citazioni, delle delusioni e esigenze di una vita d’autore, dei dolori, traumi, amori, della gelosia, dei vizi, parla di alcuni (qualche volta repugnanti) difetti caratteriali di Joyce e Svevo, parla di come la città di Trieste e Svevo si sono infiltrati nell’opera di Joyce. Tra le altre cose, una parte di Svevo si trasforma in Leopold Bloom, mentre Joyce diventa parte del personaggio Stephen Dedalus nell’Ulisse.
Svevo e Joyce a Trieste
Con la prima guerra mondiale l’”enemy alien” Joyce deve lasciare Trieste nel 1915 per Zurigo. Ritorna brevemente a Trieste nel 1919, ma la Trieste che a lui è sempre piaciuta non c’è più. Non c’è più la “fauna umana variegata”, il carattere multilinguistico, multietnico. Trieste fra il 1900 e il 1910 è cresciuta da 135 a 230 mila abitanti; ma con la fine della Mitteleuropa, sin dal 1915 Trieste diventa sempre più periferia. Nel 1918 il fascismo è già ante portas. Per Trieste comincia una lunga discesa fino ad oggi (circa 200 mila abitanti). Nel 1920 Joyce si trasferisce a Parigi dove vivrà per i prossimi vent’anni. Nel1922, a Parigi, esce il suo “Ulisse”.
Quando Joyce nel 1915 parte per Zurigo, Svevo rimane a Trieste, città di irrisolti conflitti interni. Comincia a lavorare al suo terzo romanzo “La Coscienza di Zeno”, romanzo molto caro a Joyce. Uscito nel 1923 “La Coscienza di Zeno” in Italia non trova interesse. Come autore ebreo che scrive in un italiano “non-standard” su temi antieroici è un autore non abbastanza “edificante” per la “nuova” Trieste e la nuova Italia. Svevo è rimasto solo a Trieste, per cui rimane “l’industriale”. Amareggiato scrive al lontano amico a Parigi. E Joyce si mette al lavoro per far conoscere la Coscienza e le altre opere del suo amico a livello internazionale. Nel 1925, con una lettera del critico, autore e traduttore francese Valery Larbaud indirizzata a Svevo, comincia la fama internazionale di Svevo, al quel tempo qualche volta definito come il “Proust italiano”. In questo periodo Svevo fa alcune visite a Parigi. In Italia nel 1926 i venti della critica nei confronti di Svevo cambiano grazie agli interventi di Eugenio Montale e altri. Nel marzo 1928, su invito del PEN Club, Svevo viene presentato al mondo letterario di Parigi.
Una misura umana per i giganti della letteratura
Il libro di Terrinoni è molto istruttivo sui fatti delle vite trattate ma anche sul modo come vivere con la scrittura in generale: si impara e si comprende molto della vita dei protagonisti. I giganti della letteratura acquisiscono una misura umana. Il libro è anche molto divertente, non un noioso e astratto testo della storia della letteratura. Terrinoni, certamente più Joyce-sista di Svevo-logo, forse dedica troppo spazio alle speculazioni infondate e non dimostrabili e le scaramanzie numeriche, alle “co-coincidenze”, ma senza avventurarsi mai in conclusioni rischiose o discutibili. Questo libro può essere il primo passo verso una biografia completa di Svevo che ancora non c’è. Non sarà un impegno facile, perché il suo autore di natura deve essere in possesso di una profonda triestinità.
Nel settembre 1928 Italo Svevo muore dopo un incidente stradale vicino Treviso.
James Joyce, autore maturato a Trieste negli anni della sua permanenza, muore nel 1941 a Zurigo.
L’Europa della loro epoca muore durante la seconda guerra mondiale.
“Vite possibili e vite reali”, …
Terrinoni, nella sua introduzione del libro dà voce all’autore e critico francese Albert Thibaudet, grande promotore di Svevo:
“Il romanziere autentico crea i suoi personaggi con le direzioni infinite della sua vita possibile … Il vero romanzo è come un’autobiografia del possibile … Il genio del romanzo fa vivere il possibile, non fa rivivere il reale.” Come dice Terrinoni nel prosieguo del libro, gli autori di quest’ultimo tipo di romanzi usano “una modalità antiteleologica,”, non regalano certezze.
Vorrei usare la seconda parte del mio testo sulla relazione fra vita e letteratura per presentare un breve racconto dell’autore svizzero Aurel Schmidt pubblicato nell’anno 1978: Größe der Meister. Questo racconto, toccante in modo peculiare, mi piace da tanti anni. Difficile da trovare, vorrei presentarlo qui di nuovo nella nostra traduzione, perché è così vicino al tema.
Grandezza dei Maestri
[Ringrazio Aurel Schmidt per il permesso di usare il suo testo.]James Joyce prendeva la valigia fuori dalla rete portabagagli e la metteva sul pavimento del compartimento. Egli toglieva gli occhiali, li puliva sgraziatamente, li rimetteva e guardava fuori dalla finestra. Fuori lentamente si è fatto buio, una volta ogni tanto appariva una luce e scompariva di nuovo. Il paesaggio schizzava via come in un sogno, inconcepibile. Si sfumava, si distendeva, si cambiava, però James Joyce non lo percepiva affatto, egli, quando guardava fuori dalla finestra, vedeva dentro di sé, e quello che vedeva fuori erano riflessi di ciò che passava nella sua testa. La vita, ah! La natura era niente, l’Arte tutto, una insurrezione contro la vita. Sì, contro la vita. Contro la fugacità. Quindi, si doveva continuare, non c’era nessun’altra soluzione. Scrivere, pagina dopo pagina, anche se nessuno ne venisse a conoscenza. Comunque! Portare tutto il mondo con sé nella testa. Questo non era facile.
James Joyce indossava il suo cappotto, la cenere della sua sigaretta cadeva, la puliva con la mano. Il treno si fermava a Sladovice. Qui doveva cambiare, per prendere il treno per Trieste. Egli scendeva i gradini alti del vagone, metteva giù la valigia e guardava attorno. Anche altri due viaggiatori erano usciti. Strano mondo, lontano, pensava James Joyce. Egli riprendeva la valigia e attraversava la stazione, usciva dall’altro lato, attraversava la strada e entrava nella locanda, che si trovava di fronte alla stazione.
Nell’aria dentro la locanda c’era la sottile fuliggine della stufa. Nessuno era presente tranne un uomo con volto magro e occhi brucianti, seduto vicino alla stufa. James Joyce toglieva il cappotto, si accomodava a un tavolo, anche questo vicino alla stufa, tirava fuori di nuovo il suo fazzoletto, si puliva il naso e schiariva la voce. Il cameriere si avvicinava. James Joyce ordinava una scodella di zuppa che, dopo averla portata il cameriere, svuotava, con regolari movimenti. Quando avvicinava il cucchiaio alla bocca, parte della zuppa ricadeva nella scodella, perché James Joyce a tavola non guardava il cucchiaio, ma l’area tra scodella e l’altro spigolo del tavolo.
L’altro con il volto magro e gli occhi brucianti non si moveva e soltanto guardava, con tensione interna, verso James Joyce.
Con il fazzoletto James Joyce si puliva la bocca. Egli prendeva un giornale, lo teneva molto vicino agli occhiali e cominciava leggere. A volte schiariva la voce. L’altro ancora non aveva fatto una mossa. C’era il silenzio. L’altro stava pensando, come quella domenica, poco tempo fa, in preda alla disperazione nel bagno si era lavato le mani tre volte di seguito. Quando gli veniva in mente quella domenica, egli fermava per un attimo di respirare.
Dopo un po’ James Joyce metteva giù il giornale.
Avete idea, chiedeva all’altro, quando parte il treno per Trieste?
L’altro con il volto magro e gli occhi brucianti diceva, senza abbandonare la sua immobile postura: Non posso dirglielo, no, non ne ho idea. Io sto andando a Praga.
Sladovice è un importante nodo ferroviario, diceva James Joyce.
L’altro taceva.
I collegamenti ferroviari adesso sono più affidabili che prima della guerra, diceva James Joyce.
L’altro ancora non si moveva, taceva, soltanto con lo sguardo puntato su James Joyce.
Affatto, oggi viaggiare è molto più comodo che prima della guerra, James Joyce continuava.
Adesso l’altro scrollava leggermente le spalle.
Questo è piacevole, quando bisogna viaggiare tanto, diceva James Joyce.
Ancora qualche tempo passava. A questo punto l’altro alla fine diceva: Sì, e sembrava che egli venisse da un posto lontano, io conosco una persona, che spesso va a Vienna, la linea Praga – Vienna e indietro. Lui mi ha detto, che … Dopo smetteva di parlare, continuava a pensare, ritornava e continuava: Lui mi ha detto che apprezza tanto il conforto delle ferrovie.
Sì, posso capirlo, diceva James Joyce.
L’altro lo guarda, aspettando, se forse volesse parlare di più.
L’imbottitura dei sedili della prima classe è eccellente, sono stati raggiunti proprio considerevoli progressi per quanto riguarda il comfort di viaggio, diceva James Joyce. Adesso ci sono anche più treni in corso. Credo, che fra Sladovice e Trieste adesso ci siano tre treni ogni giorno.
Emergeva una pausa. James Joyce si mordeva le labbra. Dopo qualche tempo l’altro chiedeva: Lei è un ingegnere?
Io? No, rispondeva James Joyce, sono un insegnante di lingue. Insegno l’inglese alla Berlitz School a Trieste. Sto andando a Trieste.
Pensavo che lei forse fosse un ingegnere, diceva l’altro. Lei è Inglese?
No, rispondeva James Joyce, Irlandese. Sono Irlandese, da Dublino.
Aha, diceva l’altro.
Dopo, ambedue tacevano di nuovo, ognuno occupato con il proprio pensiero. L’orologio ticchettava. James Joyce prendeva un pezzo di carta e su questo scriveva: Don Dom Dombdomb and his wee follyo! Non ci si deve mai arrendere, egli pensava, bisogna far rotolare la pietra, rotolare e senza sapere come va a finire. Come andava a finire? Non si sa. Resistere, si deve resistere. Ma non si può sempre comportarsi come si è, qualche volta si finge, per resistere. L’altro guarda, ancora senza mozione e muto, con occhi brucianti. Quando James Joyce notava che l’altro lo guardava mentre scriveva, egli metteva da parte il foglio. Il cameriere attraversava la stanza, esaminava i due ospiti, ma questi non gli prestavano attenzione. Il cameriere sistemava la tovaglia e spariva di nuovo.
L’altro faceva una mossa con la testa e chiedeva silenzioso, appena udibile: Mi dica, lei scrive?
James Joyce scrollava le spalle.
Scrivere è un atto di disperazione. È la cosa più priva di senso nel mondo, diceva l’altro.
Ne dubito, diceva con esitazione James Joyce, senza guardare l’altro.
È la cosa più priva di senso nel mondo, ripeteva l’altro, la cosa più priva di senso che esista nel mondo, ma, e ne sono sicuro, è anche la cosa più essenziale della vita.
Se vuole metterla in questo modo, che cioè è priva di senso ma allo stesso momento essenziale per la vita, posso naturalmente concordare con lei, diceva James Joyce. Poi egli pensava e continuava, un po’ impacciato, non avrebbe saputo come esprimersi: Mi sbaglio, se concludessi dalle sue parole che lei sia uno scrittore?
L’altro di nuovo si fermava leggermente per un attimo, come se interrompesse il flusso dei pensieri che scorrevano dentro di lui, e poi diceva: Scrittore? Io lavoro in una assicurazione. A Praga.
Ah si, diceva James Joyce, la prego di scusare la domanda, non volevo essere invadente. Poi, dopo un po’ di tempo: Io non sono mai stato a Praga.
È una città buia con strade profonde come gole, diceva l’altro. Quando le carrozze corrono sul pavimento, i rumori riecheggiano terribilmente. Di domenica le strade dei sobborghi sono deserte. È la città delle minacce, del freddo e della solitudine, è terribile, Praga è una città della caduta.
Egli aveva parlato a lungo.
Fuori adesso era buio.
I signori desiderano ancora qualcosa, chiedeva il cameriere che di nuovo era arrivato.
L’altro con volto magro e occhi brucianti non si muoveva.
Lei sa quando parte il treno per Trieste, James Joyce chiedeva al cameriere.
Posso controllare, se lei vuole, diceva il cameriere, un attimo per favore. Lui scompariva in una stanza accanto.
Se viaggio tutta la notte, sarò a Trieste domani mattina, diceva James Joyce.
Alle ore 19 e 12, diceva il cameriere, che era tornato.
Quindi devo scendere adesso, diceva James Joyce.
Egli indossava il cappotto.
Quale avete mangiato, chiedeva il cameriere.
James Joyce puntava alla scodella, che stava sul tavolo. Egli pagava.
Il cameriere prendeva i soldi, aggiustava la tovaglia e scompariva di nuovo.
James Joyce si rivolgeva al tavolo dell’altro e diceva: Mi chiamo James Joyce, e vi auguro un buon viaggio, Arrivederci.
L’altro guardava James Joyce. Poi si inclinava leggermente avanti e diceva, appena udibile: Kafka, Franz Kafka, e annuiva.
Molto lieto, diceva James Joyce e annuiva salutando.
L’altro inoltre come saluto faceva una leggera mossa con la testa.
Dopo, James Joyce prendeva la sua valigia, lasciava la locanda e alle ore 19 e 12 continuava con il treno verso Trieste.