Per “Di Versi in Versi”, vi proponiamo la lettura di “New Jersey”, di Marco Bini, edito da Interno Poesia.
La provincia e la narrazione della sua storia
La provincia, non il suo provincialismo. La fascinazione che ne subiamo, come osservando le foto del Maestro Ghirri che l’autore cita in esergo: «Il vero simbolo della provincia è essere incapace di narrare la propria storia»; mai la sua decadenza. La distanza tra noi che l’abitiamo e il mondo – o tempo – altro che proviamo a raggiungere. Una voce, quella di Marco Bini, salda, ancorata alle tematiche di cui si fa portavoce. Voce solida anche dal punto di vista tecnico, ma mai macchiata da uno sfoggio di erudizione che chiude la poesia in se stessa; e la sua apertura al mondo, all’altro da sé, Bini la dimostra con la scelta della seconda citazione in esergo, quando si “appropria” delle parole di Iosif Brodskij: «La poesia è la miglior scuola d’insicurezza che ci sia».
Che ci si trovi nel Nord Oriente degli Stati Uniti, in quel “New Jersey” che l’autore ha impresso nel titolo della raccolta, o nell’Emilia, cuore pulsante della Pianura Padana, la raccolta del poeta ha il suo centro nel senso di distacco tra ciò che abitiamo – nel senso ambientale o emotivo del termine – e ciò che crediamo vera e più adatta vita:
«Al capo estremo del tracciato siamo
dove ai giorni non si attaccano aggettivi,
siamo deposito e sedimento,
siamo i pezzi che nell’esplosione volano lontano».
È una grammatica dei luoghi quella di Marco Bini, che ci avvicina a dimensioni che – per quanto poco note ad alcuni – ci fanno sentire la porzione di mondo che è il domestico, dove l’io si fonde con l’ambiente e ad esso si rivolge:
«Ha arterie e atri separati, se esagera coi volt
può scoppiare di spavento: è fatta come un cuore
la mia città e pulsa quanto pulsa un verso
sulla punta delle dita quando non si schiude», scrive l’autore, utilizzando con audacia il possessivo che lo lega alla città che pulsa, e si fa passivamente vivere, pur nel distacco: «nell’arancio rivedo in ogni palmo le mie stature, / le duemila e più sfumatura del mio distacco».
La terra, con le sue «colonne in mattone-memoria» (scrive l’autore nel testo intitolato “Formigine – a partire dalla foto di Luigi Ghirri) è:
«di un rosso che ha senso sempre e ho sempre amato
Il nome fa geometria – sembra “qui si dà la forma”
– ma è uno scampolo di Emilia simmetrica dove scappa
quasi tutto:
anche l’occhio si stacca dall’idea di eterno
e oro medievale del fondo latte e luce,
prende la verticale del palo, sale fin dove sa arrivare».
Distacco, la “narrazione” della distanza dai luoghi e dai tempi
Distacco è termine che ricorre concettualmente lungo i testi dell’autore, che si serve della semantica della distanza per definire moti interiori e tempi che sentiamo non appartenenti alle nostre idee o ambizioni: «Mancano all’appello frasi ricorrenti, / facce dense e ferme, modi di portare il cappello, / motivi fischiati nel ricamo dell’aria / sotto le volte dei portici». Essere al di fuori del tempo, del luogo, di quel sé che diventa più lucente quando è altro, o lo si immagina in uno spazio che sia altro: «È finito lo spazio per i morti: nessuno lo dice, / ma se taci senti tutto quello che succede. /Ad esempio il disabitarsi delle case che sognavi, / lo slittare delle pietre tra corso e castello».
Parla di versi commoventi il poeta Cristiano Poletti a chiusura della prefazione di questo libro pieno – libro che pesa, dove si sente chiaramente il labor limae del poeta, che evoca immagini limpide – nel riportare la chiusura di uno dei testi che compongono la raccolta:
«Crinali di colline al ritorno, cielo, cose che non so.
Continuate a darmi limiti
spingetemi a frugare nel mucchio del visibile.
Diventate scrittura, accenti sul libro del mondo.
Parole:
fatevi scrivere, tenetemi in vita». Un testo per cui sentirsi grati, in cui sentiamo «l’ebbrezza per una poesia che vorrei fosse mia» (come scrive Bini in un successivo componimento) e siamo solo a pagina 29.
Una ricerca perpetua, un viaggio nella poesia che merita
Questo lavoro di Bini è una ricerca perpetua, come ci piace immaginare sembrino dirci i versi a pagina 33: «Volevo che smettesse tutto quanto / non volevo davvero che finisse»; che vince la sfida con se stessa, arrivare all’approdo delle radici, sentirle, senza mai comprenderle del tutto, narrarle servendosi degli ossimori, della parola e del sentire, estendersi e avvilupparsi alla storia che definisce tempi e dimensioni dell’umano esserci stati e del suo ripetersi:
Il New Jersey di Marco Bini è un viaggio, come lo definisce Poletti, augurando al lettore il piacere di iniziarlo. Lo è, se in un dentro o in un altrove, anche temporale, poco importa. La sua energia è la suggestione che provoca il gesto, come in ogni poesia che non si improvvisi, che si sia conquistata lo spazio di merito nei confini della sua stessa definizione.
“New Jersey” di Marco Bini, edizioni Interno Poesia.