Per “Di Versi in Versi”, vi proponiamo la lettura di “Corpo della gioventù”, di Alessandra Corbetta, edito da Puntoacapo Editrice.
La Corbetta scava negli incavi aulici, ma comprensibili, della poesia
Cita Pier Vittorio Tondelli, omaggia Milo De Angelis, e poi Rondoni, Conte, Fiori. Ma non ci appare uno sfoggio di erudizione quello della Corbetta. Più un senso stretto, legato, ancorato, alle parole, da cui sempre partire e a cui sempre ritornare, in un archetipo circolare che fa bene alla poesia; alla sua certo, ma anche al mondo poetico nella sua totalità.
“Credo di essere nato artista. Ho imparato studiando la vita di altri artisti”, ci diceva Keith Haring, che tutti hanno in mente per lo scenario pop che è stato capace di creare e governare. Ma molti ignorano che la sua formazione è passata per artisti come Picasso, Bosh, Michelangelo. Mi perdonerà, l’autrice (e il lettore), questa breve divagazione su Haring. Perché la citazione dell’artista statunitense non è propedeutica alla volontà di accostare lo stile. La Corbetta non abbraccia lo scenario pop. Direi decisamente il contrario. Ma serve a comprendere l’operazione che sembra aver fatto l’autrice, che nasce artista – questo sembra dirci la lettura di questo suo testo – ma si serve della sua formazione per dire nel suo proprio e riconoscibile modo.
L’architettura della parola della Corbetta scava negli incavi aulici («le virgole non appartengono / ai poeti audaci ci sono cose da intuire», scrive la Corbetta), ma non per questo meno comprensibili, della poesia. Perché – a parere di chi scrive – la poesia deve saper dire all’Altro, non dire a se stessa; ognuno con stile e costruzioni che reputa più adatti alla propria corrispondenza interiorità/parola. Perché la poesia – come tutta l’arte della parola in generale – non è mai scevra dal costante spirito di ricerca.
Il corpo e i suoi colori, per raccontare il concetto di tempo
«All’ufficio oggetti smarriti gli ombrelli
passano di mano in mano
in fondo
è sempre uguale
la pioggia»,
scrive l’autrice per parlare di un addio, per dirci – probabilmente – che ogni forma di privazione genera allineamento di dolore, che la sofferenza quando arriva non dispensa, non discerne, passa di mano in mano, ma ugualmente esiste. O forse non parla di un addio. Ma la poesia ha in sé il gene dell’interpretazione. Si sceglie una parola e non un’altra, anche perché ognuno possa concentrare l’attenzione dove crede ci sia ristoro. E allora, «so bene dove ferma l’addio», diventa centro e propedeutico alla comprensione ultima e totale dell’intero componimento. In questo la Corbetta è maestra.
Per meglio comprendere questa sua propria capacità, andiamo a pagina 40, al componimento intitolato “Fantaghirò”: La Corbetta è capace di passare dalla «mano della recitazione» che «si fa tremante», all’immaginario fiabesco dell’adolescenza («Fantaghirò si stanca / di cercare Romualdo»), e conclude citando Saba. Ma dell’intero componimento, il centro – almeno, è così per chi scrive – è il «punto morto dell’incontro» e la connessa volontà di volersi fermare in quel microcosmo temporale.
E procedendo a passo di coerenza e connessione, approdiamo – nella lettura – alla nuova terra del poliedrico intendimento del tempo, che si serve dell’ossimoro per dispiegarsi agli occhi del lettore:
«quanto ero vecchia
a non voler crescere,
a voler restare bambina».
Architetto della parola, con una voce che sa farsi riconoscere
E in chiusura il concetto di parola che diventa rappresentazione del corpo e dei suoi colori, con guance che esplodono, in una vita che «stava bene solo dentro all’alfabeto: / lì, neanche la Zeta ti faceva paura».
Il lavoro poetico della Corbetta si serve del concetto di corpo per dire, dispiegare il senso del tempo che passa, si ferma, o si vuole fermare. Lo fa con salda conoscenza della parola poetica. È un architetto della parola, la Corbetta, il cui stile si riconosce, come in tutte le più grandi voci.
“Corpo della gioventù” di Alessandra Corbetta