“MARS ROOM” mi ha inghiottita, risucchiata, imprigionata nelle sue pagine e nelle parole della Kushner.
Parole dure che raccontano storie dure, storie di coloro che nascono in un determinato contesto e che non hanno molta possibilità di scelta, seguono un percorso che è già stato tracciato per loro e che porterà, inevitabilmente, al degrado e all’autodistruzione.
Dal “Mars Room” al carcere…
Nel carcere femminile americano di Stanville, conosciamo Romy, 29 anni (con un figlio di 5) condannata a due ergastoli e sei anni (e sei anni?!?) di reclusione per aver ucciso il suo stalker.
Nessuna attenuante per lei, nessuna difesa.
Perché Romy viene dal basso, da un passato fatto di anaffettività, abbandoni, violenza, droga, locali di strip, prostituzione, disagio.
Una giovinezza randagia che l’ha portata a ballare sul palco del “Mars Room“, infimo locale di spogliarelli, e nel mirino di Kurt, cliente ossessionato da lei.
Lei, come molte altre detenute, sono colpevoli sí, ma soprattutto vittime.
Vittime di una società americana classista e di un sistema giudiziario e carcerario che non è affatto uguale per tutti, che invece di riabilitare sembra godere nello schiacciare, nel distruggere: se non hai soldi, se non hai qualcuno là fuori che paga e lotta per te, sei fottuto.
Immagini vivide, reali, sia quelle della mente di tutti i personaggi (tanti e ben caratterizzati), sia quelle della vita nella prigione con tutti i suoi meccanismi, rituali, divieti e soprusi.
Gabbie reali e gabbie mentali.
Sembra di sentire il suono della voce austera e gonfia di potere degli agenti di custodia, il tocco ruvido delle loro mani durante le perquisizioni, la paura di chi entra in carcere per la prima volta e la familiarità di chi puntualmente ci ritorna, ancora e ancora, perché lì fuori, nel mondo libero, non c’è nessuno e nessun posto ad aspettarli.
Sembra di respirare l’aria viziata delle celle sovraffollate, anche quella soffocante dell’isolamento, l’ora d’aria in un cortile invaso da migliaia di tute blu, migliaia di donne che stanno imparando come sopravvivere in prigione: chi si fa gli affari propri e parla poco, chi ha fatto della propria storia una leggenda da raccontare anche attraverso il condotto dello scarico del bagno, chi si dà al contrabbando, chi aspetta la possibilità di sfogare la propria frustrazione facendo a botte…
Chi, come Romy, sogna solo di poter rivedere suo figlio, anche per poco…e intravede in un insegnante carcerario quel ponte con il mondo esterno di cui avrebbe tanto bisogno.
Dicono che la condanna ti colpisce a ondate.
La mia mi stava colpendo. Non vedevo un modo per accettare quella come vita, per viverla fino alla fine.
La struttura del romanzo è scomposta, ti strapazza un po’, ci sono molti personaggi, molte storie, tanti punti di vista, ma un unico, continuo e sfaccettato fil rouge: la disperazione.
Una scrittura lucida, diretta, sfrontata, senza filtri, che ti arriva addosso come un tir carico di letame, e ti sommerge.
Un libro sull’America contemporanea, sulla violenza, sull’importanza dell’ambiente sociale, sulla colpa e la punizione, sulla libertà, soprattutto quella di chi libero non è stato mai.
Forte, duro, bellissimo.
Uno dei migliori libri degli ultimi anni.
(Ho letto il libro in un momento in cui sono particolarmente interessata a tutto ciò che riguarda l’ambiente carcerario e le sue dinamiche, e dopo aver guardato diverse serie tv con questa ambientazione. Continuerò a cercare romanzi sull’argomento…)
“Mars room” di Rachel Kushner, Einaudi editore. Un libro tra le mani.