Rete Miceliale

“Blade Runner” di Philip K. Dick: recensione libro

Apro con questa citazione del romanzo Blade Runner di Philip K. Dick perché non è facile parlare di un’opera come questa. Non è facile perché porta sulle spalle il peso postumo di un film, il Blade Runner di Ridley Scott che ha segnato un intero immaginario e non è facile perché Philip K. Dick è semplicemente un gigante, e di lui, dei suoi scritti, si è detto e scritto tantissimo.

Per prima cosa, la facoltà dell’empatia richiedeva probabilmente un istinto di gruppo, un organismo solitario come un ragno non avrebbe saputo che farsene. Infatti, esso avrebbe minato le capacità di sopravvivenza del ragno. Lo avrebbe reso cosciente del disperato desiderio di vivere della sua vittima. E come lui tutti i predatori, anche i mammiferi più sviluppati come i gatti, sarebbero morti di fame.
L’empatia doveva essere limitata agli erbivori, o comunque agli onnivori, in grado di staccare da una dieta a base di carne. Perché, in ultima analisi, la facoltà dell’empatia confonde i confini tra cacciatore e vittima, tra il vincitore e lo sconfitto.

Perciò cosa resterebbe da dire ancora?

Blade Runner Philip K. Dick

Sensazione e solitudine

Restano, e non è poco, le sensazioni che scorrono dalle parole scritte alle dita, che si insinuano oltre la coscienza catalizzando riflessioni che, come sempre succede con Dick, diventano via via più consistenti e inquiete. Questo romanzo ne trasmette molte, di sensazioni. Ogni pagina è avvolta da un’umida dolcezza amara che parla di solitudine.

Una solitudine forte e disperata, una solitudine desiderata e al tempo stesso temuta che Dick incarna nei suoi personaggi umani. C’è molto di lui, dei suoi tormenti. E c’è la decadenza di un’intera specie, la costante battaglia giornaliera che i pochi terrestri rimasti combattono nella drammatica ricerca di qualcosa di vivo di cui prendersi cura, qualcosa che non sia però un essere umano ma che abbia la capacità di accettare l’amore in maniera neutra, pura. Animali. Semplici animali. 

Gli esseri umani sono capaci di dominare e controllare le proprio emozioni con la tecnologia mentre gli animali, quelli veri, restano unica rappresentazione di un bene e di una purezza irraggiungibili dai testardi terrestri.

La purezza dei semplici

C’è Isidore, lo speciale, il testa di formica, che nella sua semplicità al limite della menomazione mentale è in realtà l’essenza più sincera dell’uomo-animale sociale: l’anello di congiunzione tra ciò che l’uomo ha perso e quello che gli animali rappresentano. Non vuole stare solo Isidore, non può stare solo ed è disposto a qualunque compromesso pur di sentirsi utile, pur di avere una concreta dimostrazione che la sua essenza semplice non è superata, non è inutile anzi, è preziosa. 

L’equazione emotiva alla base della sua struttura è semplice: da una parte lui, dall’altra la necessità di essere altro, di più, attraverso la capacità di avere relazioni sociali. Dove non arriva l’intelletto, può arrivare la volontà che Isidore dimostra di aiutare gli altri. Empatia, appunto.

Amore disperato

Ci ci sono le bugie, il terrore di perdersi, il non sapere mai davvero cosa si è, come si è. Forse anche perché si è. C’è la comicità contro la religione, il patinato show di Buster Friendly in contrasto con la disciplina di Mercer, una comunione di emozioni, surrogato di ciò che era la socialità una volta. Il tutto elevato all’ennesima potenza grazie alla capacità di controllare le emozioni.

Sono le emozioni a diventare merce rara tanto da trasformare la comunione di Mercer in una sorta di scambio tra insetti, di disfunzionale entità collettiva nella quale le emozioni forti vengono condivise e per questo depotenziate: non c’è speranza, non c’è prospettiva nel mondo terrestre teorizzato da Dick.
Ma c’è l’amore, un amore disperato che si mescola con i desideri, con la perfezione degli androidi, con il violento tentativo dell’uomo di sopravvivere a sé stesso finendo però con il sostituirsi un poco alla volta, sempre di più: androidi al posto di uomini.

La grande assenza

E poi l’empatia. Il concetto che apre queste impressioni e che il Blade Runner di Philip K. Dick ci inietta sotto pelle quasi in apertura di romanzo, un veleno cutaneo che richiama a narrazione inoltrata per dirci la sua semplice verità: l’empatia è la chiave dell’uomo. L’empatia è la grande assente alla quale tutti cercano di sopperire: ci prova Buster Friendly con la sua comicità mondiale, ci prova Wilbur Mercer costringendo alla comunione emotiva, ci provano gli androidi sapendo che è la principale lacuna della loro programmazione.

Questa assenza, non è troppo simile al nostro presente?

Blade Runner, Fanucci. Rete Miceliale.

Maico Morellini

Maico Morellini, classe 1977 vive a Reggio Emilia e lavora nel settore informatico dove si districa tra cinema, programmi e letteratura. Il suo primo romanzo di fantascienza, Il Re Nero, ha vinto il Premio Urania 2010 ed è stato pubblicato l’anno successivo da Mondadori. Sempre per Mondadori nel maggio 2016 è uscito il romanzo La terza memoria. Nel 2018 il romanzo Il diario dell’estinzione edito da Watson ha vinto il Premio Italia 2019 come miglior romanzo fantasy. Nel 2019 ha pubblicato all'interno dell'Urania Millemondi Strani mondi il racconto Fatum e con Providence Press il romanzo Il ragno del tempo, vincitore del Premio Italia 2021. Ha partecipato a diverse antologie tra cui 365 Racconti sulla fine del mondo, Propulsioni di improbabilità, I sogni di Cartesio e Ma gli androidi mangiano spaghetti elettrici? e pubblicato altri diversi racconti.

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