“It” di Stephen King: recensione libro

Ma sì, dai, mettiamoci pure a parlare di It di Stephen King, probabilmente il libro più famoso al mondo dopo la Bibbia. Che sarà mai? Solo cercare di approcciare uno dei testi più venerati dalla comunità di lettori, con uno fra gli incipit più memorabili e poetici mai scritti (Il terrore che sarebbe durato per ventotto anni, ma forse di più, ebbe inizio, per quel che mi è dato sapere e narrare, con una barchetta di carta di giornale che scendeva lungo un marciapiede in un rivolo gonfio di pioggia), e con un immaginario popolare così condiviso da giocarsela con pochi altri mondi immaginari, più probabilmente nessuno. Chi non conosce il clown killer di bambini? Chi non conosce Georgie e il suo impermeabile giallo? E i palloncini rossi? D’altronde, qua sotto galleggiano tutti.

Okay, passo indietro. Non proprio tutti hanno letto It, ma tutti lo conoscono. È eccezionale il fatto che tra tutta la gente che conosce It, solo la minima parte ne sia venuta a conoscenza diretta tramite il romanzo del caro vecchio King. Non bisogna aver visto Star Wars per conoscere Star Wars, così come non c’è bisogno di leggere It per conoscere It.

“Ecco, adesso ci conosciamo.”

La storia la sappiamo più o meno tutti. Tramite passaparola, tramite riproposizioni cinematografiche, tramite meme, tramite zerbini barely legal su Etsy, sappiamo che in una cittadina americana negli anni Cinquanta cominciano a sparire un mucchio di bambini, e che altri bambini vedono cose spaventose che gli adulti non vedono, tipo Pennywise il Clown ma anche mummie e ragni giganti e lavandini con un’emorragia, e che questi bambini – quasi tutti emarginati – stringeranno un patto per combattere un mostro così blasfemo da non meritare nemmeno un pronome che sappia di umanità, e che infatti chiameranno It (e peccato per noi che ci perdiamo le associazioni, ma in compenso ci godiamo la traduzione di Tullio Dobner, aka “il divino”). Come poteva immaginare, Stephen da Bangor, che un giorno il clown che sbuca dalle fogne avrebbe invaso internet? E pur di non osare con l’inosabile, saccheggeremo anche la Wiki!

“It è una lunga e sinistra saga corale che si espande tra orrori inquietanti e drammi umani senza speranza, trattando i temi che in seguito diventeranno il simbolo dell’autore: la forza soverchiante della memoria, la profonda incisività dei traumi infantili, il prezzo della violenza occultata dietro una fragile maschera di felicità, la grettezza e la bassezza umana nascosta dietro le apparenze di una ridente e piccola cittadina.”

“Una storia porta a un’altra, e poi a un’altra ancora.”

Qui infatti non stiamo a raccontarvi della narrazione di It, del fatto che la storia copre un arco narrativo che abbraccia l’infanzia e la maturità di un gruppetto di amici chiamato I Perdenti, delle caratteristiche di ognuno, della balbuzie di Bill, del giuramento di Stan e della paura della paura, degli abusi subiti da Beverly, della Munchausen per procura di Eddie e di bullismo, razzismo e violenza nelle piccole comunità USA anni Cinquanta (ci avete fatto caso che intanto ne stiamo proprio parlando? Grazie, zio Steve, per l’imprinting da letto-scrittori), ma proviamo a proporre un altro livello di lettura. Del clown hanno parlato tutti, della blasfemia di un killer di innocenti e della connivenza degli adulti, per non parlare del fatto che solo su Henry Bowers e compagni si potrebbe fare un trattato sull’evoluzione del bullismo, della viltà e della stupidità del male. Infine, se non fosse bastato il poetico adattamento televisivo degli anni Novanta è arrivato il blockbusterone in due parti degli ultimi anni, a distribuire il terrore lì dove non era mai giunto prima – imparagonabile al libro nonostante alcuni azzeccatissimi jumpscare, ma ehi, cosa lo è? E poi vi leggiamo nella mente: wow, ci voleva The BookAdvisor per spiegarci It. Che volete farci, siamo incoscienti. I Perdenti non hanno forse sconfitto la Mangiatrice di Mondi perché erano convinti di poterlo fare? Questo è il nostro proiettile d’argento.

“Era odore di corruzione, una zaffata del sottomondo.”

E parlando di incoscienza ci ritroviamo a introdurre l’argomento dell’articolo: di cosa parla It, al di là di un clown eterno e mutaforma, e di un manipolo di ragazzini che prova a sconfiggerlo? Spariamo il nostro colpo migliore, come Bev: It parla di corruzione. Grazie al clown, direte voi, viene anche spiegato per filo e per segno! In effetti It offre ai perdenti agio e benessere pur di essere lasciato in pace e, nonostante le pessime premesse della loro vita d’infanzia, tra complessi, abusi e ansie, per ventotto anni questa corruzione funziona, e il successo li ottenebra quasi tutti. Vero, chiaro, ma non parlavamo della corruzione diretta, ovvero qualcosa per qualcosa – qualcosa di esecrabile. Questo aspetto è già fin troppo letterale nel romanzo, fra le cui pagine abbiamo vissuto il benessere misto infertilità – bizzarro controvalore – con cui It ha premiato i Perdenti che hanno lasciato la città. Parliamo invece della corruzione spontanea, insita nell’uomo e nella società in cui si è organizzato. E anche un po’ della corruzione materica, del disfacimento e della perdita dell’innocenza. Tutto ciò che avviene, insomma, nel momento in cui diventiamo adulti.

“Si può aver paura e funzionare lo stesso.”

Non è un caso che It si cibi di giovani, perché oltre che dei loro corpi si ciba anche delle loro paure. E benché gli adulti non abbiano meno paura dei bambini, i grandi indossano paure più elaborate, più contorte, più sofisticate. La sofisticazione è un processo di falsificazione. Una parola inoffensiva per indicare qualcosa di spregevole, una parola corrotta essa stessa. Proprio per questo l’altalenanza tra età adulta e infanzia è uno dei temi centrali di It, sia a livello di storia sia di narrazione, ed è anche un mantra niente male per la vita – strizzata d’occhio all’amichevole Steve di quartiere – quello secondo il quale occorre tornare bambini per capire come abbiamo distrutto le migliori armi che avevamo, e occorre pensarsi enormi, credere di potercela fare, per… beh, per farcela. Un bambino può tollerare il mostro sotto al letto, ma sopportare la distruzione della razionalità per un adulto può essere… insomma, chiedetelo un po’ al caro Stan Uris.

“Il solito fottuto scrittore, più svitato di un cavallo.”

Quando eravate piccoli vi sarà capitato come a tutti, ascoltando i discorsi dei grandi, di meravigliarvi di certe inutili complicazioni e di sentire che, voi sì!, avevate per quelle complicazioni una risposta così giusta, così definitiva, che vi sembrava incredibile che fosse solo alla vostra portata! Se vi è capitato, sapete anche che vi siete scordati quella risposta. Solo da piccoli avremmo potuto chiamare la mostruosità rappresentata da un pagliaccio che però è anche ragno, cannibale, mummia, fantasma, realtà e allucinazione, con la semplicità della sillaba “It”, ciò che non ha genere e che perciò è degenere, deviato, e ancora una volta, corrotto. Un gran peccato perdersi questa semplicità in italiano, con tutti i passaggi che ne derivano, ma meglio non farsi tentare dalle tante diramazioni offerte. E dunque, cominciando a ragionare da grandi abbiamo perso il senso di ciò che è genuino. Ci siamo sofisticati. Parliamo di mutui, di proprietà, di diritti, di assicurazioni, di bot, di spread (ma grazie a Dio anche di spritz), tutte cose che non esistono ma che ci paiono reali, solidi come i mattoni in cui investiamo i nostri risparmi. Indovinate un po’, di tutte queste cose è molto più reale un clown fuori di testa in attesa sotto un ponte – a proposito, l’ispirazione di Stephen King non era il killer travestito da clown Gacy – puah! Che volgarità! – bensì la strizza che lo prese un giorno in cui andava a ritirare l’auto dal meccanico come un comunissimo americano con gli stivali. Stivali che però facevano un rumore dannato su un ponticello che tagliava a metà un fiumiciattolo, e peccato che al tramonto in una città che non era la sua non ci fosse nient’altro all’orizzonte che lui, il rumore dei suoi stivali sul legno mezzo marcio e la convinzione improvvisa di un troll con occhi gialli da rettile che lo fissavano da sotto le assi. Non sappiamo se il pensiero di qualche migliaio di dollari in banca e dell’esattezza del giorno e della notte lo abbiano rassicurato in quel momento, ma siamo sicuri che sia stato piuttosto sollevato una volta superato ponte, e fiume ed eventuale troll – non si sa mai (quella città era Boulder, che poi divenne la zona libera de L’ombra dello scorpione… accidenti, ma qui rischiamo di starci fino a notte!).

“Si è mentitori perfetti specialmente con sé stessi.”

Non è un caso se in It gli adulti non sono in grado di vedere la verità sotto i loro occhi. L’orrore che li circonda, il male che opera in mezzo a loro. Non lo vedono, e a dirla tutta, a un certo punto hanno deciso che preferivano così. Preferivano dimenticare qualche bambino morto ogni ventotto anni, pur di continuare le loro vite. La stessa sorte è toccata anche ai perdenti, una volta cresciuti. Tutti hanno dimenticato. Tutti tranne Mike che si è preso l’impegno più gravoso (in fondo è o non è un bibliotecario? E il suo è o non è un mestiere onorevole per definizione? Va bene, sì, affidare a un bibliotecario la voce narrante è anche una scelta didascalica, ma restiamo in tema!). L’unico che ha scelto di non andare avanti pur di rimanere a guardia del forte. Messi davanti alle loro responsabilità, la prima cosa con cui hanno fatto i conti è stata la promessa che si erano fatti ventotto anni prima. Le promesse non mantenute, ecco un’altra porta verso la corruzione.

“Una delle grandi verità della sua infanzia: i veri mostri sono gli adulti.”

Veniteci a dire che le promesse di un adulto valgono quante quelle di un bambino. Per un bambino una promessa vale quanto la persona che la formula. È una regola inviolabile. Volete deludere irrimediabilmente un bambino? Allora fategli una promessa che non manterrete. È con la prima promessa tradita, che un bambino fa un passo verso la maturità. Con la prima delusione, in altre parole. E sono proprio gli adulti che insegnano ai bambini che le promesse in fondo non sono così importanti. Come può un bambino continuare a credere nelle promesse, se possono essere tradite anche quelle fatte ad autorità ben più superiori? Vogliamo tirare in ballo anche Dio? Eh? Gli adulti prima insegnano ai bambini il concetto di promessa, e poi gli insegnano a violarla. Prima insegnano a dire la verità, e per spiegarla insegnano cos’è una bugia. E se non è corruzione il tradimento di un bambino… D’altronde la delusione di fronte all’inadeguatezza parentale è comune a tutti i protagonisti di It, senza che serva tirare di briscola con gli abusi subiti da Beverly ed Eddie. Il rifiuto di vedere la realtà, di vedere i loro stessi figli, è strettamente intessuto nella trama di un racconto che si serve prima dell’illusione, per credere che ci sia un’altra spiegazione, e poi della delusione, per sentire quanto profana sia la realtà (un clown assassino con poteri magici? Una città di omertosi e razzisti? I nostri genitori che non ci amano quanto dovrebbero? Ma, come riflette Bill, “ad appoggiare l’orecchio a quella porta, si udivano soffiare dall’altra parte i venti della pazzia.”) e infine non resta che la collusione: si può sempre scegliere di combattere… se ci si ricorda di poterlo fare. Se ci si ricorda di averlo già fatto.

“Mi ero dimenticato di tutto quello che significava essere un ragazzo.”

Quella promessa così solenne, tanto importante da dover essere firmata col sangue, è stata presto scordata da tutti. Crescendo, I Perdenti, proprio quelli che avevano sconfitto il male solo perché credevano nel valore delle convinzioni, solo perché credevano che se i mostri delle storie possono essere feriti allora It poteva essere ferito, e che se poteva essere ferito allora poteva anche essere ucciso, e che finché sarebbero stati insieme avrebbero avuto la meglio, gli unici ad aver visto l’orrore e a poterlo raccontare, gli unici a conoscere la verità, e quelli che, beh, toccava a loro, il compito di fermare la spirale di morte che altrimenti non si sarebbe mai arrestata… crescendo, quei Perdenti hanno scordato tutto questo. Hanno scordato che la storia non è ancora finita. Hanno scordato che avevano promesso di ritrovarsi, il giorno che It fosse tornato, diventando loro stessi gli adulti corrotti dal benessere che tradivano le promesse fatte ai bambini che erano stati. Con la stessa facilità con cui scordiamo di aver promesso a un bambino che sabato lo avremmo portato a mangiare un bel gelato. Quel bambino che ha aspettato fiducioso quel sabato per tutta la settimana. Non siete diventati un po’ più adulti anche voi così? Non è così che ci tradiamo anche noi ogni giorno, dimenticandoci di esserci promessi, un giorno d’estate, che da grandi noi non saremmo mai diventati così?

“Fammi vedere come si vola.”

Poi c’è il sesso, la corruzione tout court, e vien da chiedersi se Stephen King riscriverebbe lo stesso romanzo dovendo farlo oggi. Probabilmente no, ma cosa è successo, nel 1958, dopo che I Perdenti hanno ricacciato indietro il male? Si sono persi, ecco che cosa è successo. Immemori e affranti, sfiniti e tuttavia ancora incompleti, non sono stati più capaci di trovare la strada per tornare indietro. Una volta costretti a crescere, non sono stati capaci di ritrovarsi. Hanno perso la fiducia in loro stessi e tra di loro, nessuno ha il coraggio di dirlo, ma sotto le fogne, nessuno è più come prima. Ora che hanno visto in faccia la morte, adesso che hanno guardato oltre i pozzi neri, adesso che conoscono quanto grande e inspiegabile è in realtà il mondo, non sono più gli stessi. Il gruppo e la coesione sono andati, ed è Bev ad averne l’intuizione. Non sa bene perché, non ne capisce il motivo, ma è certa che non possano più comunicare come prima. È certa che per ritrovare quel legame che li aveva portati fin lì è necessario passare per quella cosa dei grandi, quella dalla quale il padre l’ha sempre messa in guardia e contemporaneamente quella con cui l’ha minacciata, sì, quella cosa orribile che rende così strano il rapporto con lui.

Viene a lei per primo perché era il più spaventato. Viene a lei non come l’amico di quell’estate, né come suo occasionale amante, ma nel modo in cui sarebbe andato da sua madre solo tre o quattro anni prima, per farsi consolare […]

“La forza non è più con lei o con lui, ma fra loro.”

La parte più strana del dibattito sulla scelta di Stephen King (o di Beverly?) di cementare l’unione dei Perdenti nel modo che abbiamo tutti letto, è che nessuno si è mai interrogato con lo stesso calore sulla scelta dell’autore di un clown ammazzabambini al centro dell’opera, su quanto fosse immorale e poco edificante, contro la vita stessa, scegliere un killer cannibale di bambini come personaggio chiave di un libro, e per più di mille pagine. Invece le pagine in cui Beverly condivide sé stessa con (nell’ordine) Eddie, Mike, Richie, Stan, Ben e Bill, vengono sempre più discusse man mano che passano gli anni, ed evitate con religiosa cura da ogni trasposizione. Ma se il problema è l’essenza, dato che parliamo di narrazione, come può una cosa naturale come il sesso, diventare qualcosa di corrotto? Quando abbiamo cominciato a vergognarci del sesso, e vergognandoci ne abbiamo perso il controllo. E quando siamo diventati così sofisticati da perdere il diritto sul nostro corpo? Come può qualcosa alla base della vita diventare una forma di corruzione? Significa che la vita stessa è una forma di corruzione? O soltanto che vi è fatalmente destinata? Nel qual caso la vera sfida sarebbe vivere senza alterazione i nostri desideri il più a lungo possibile, senza scambiarli, senza prezzarli, senza pesarli, per preservare la nostra purezza, la nostra verità.

Tuttavia qualcosa va perduto mentre cresciamo, perché l’unico modo per non crescere è morire. Beverly sceglie entrambe le cose, sceglie la sua verità ma anche il registro del cambiamento. Ricordiamo che i Perdenti hanno vinto contro It, ma non la prima volta. Dovevano diventare grandi per affrontare l’ultimo round, e anche questo passaggio che nei nostri anni sembra un boccone così problematico, appare quasi inevitabile. It perde perché non sono più incorrotti? Nella sua dieta a base di innocenza non c’è più posto per dei ragazzini già mezzi adulti (o adulterati)? Oppure avviene un cambio di marcia nella loro consapevolezza, che passa dall’autoaffermazione sessuale? Ma non è che occorra avere un’opinione su tutto, il romanzo esiste in questa forma e questa forma è indiscutibile. Tra l’altro non è che King stesse proprio cadendo dal pero, e per le pagine oggi più controverse del libro scelse un clima nebbioso, allucinatorio e più evocativo che descrittivo, onirico tanto da poter consolare chi volesse guardare dall’altra parte, come fanno gli adulti in tutto il romanzo. D’altronde lo stesso Stephen King, intervistato in merito, rispose: “Affascinante che ci siano stati così tanti commenti sulle scene di sesso e così pochi sui plurimi omicidi di minori [presenti nel libro]. Significa senz’altro qualcosa, ma non sono sicuro di cosa.”

“Hanno paura, ma questo non basterà a fermarli.”

L’ultima forma di corruzione è la paura. La paura è un meccanismo di sopravvivenza. Ci fa paura tutto quello che è pericoloso, l’acqua profonda, le altitudini, la velocità smodata. La paura ci serve, ci mantiene in vita. Eppure le paure possono essere irrazionali, e talmente intense da impedire un’esistenza regolare. Cresciamo nel rifugio di una famiglia, di una casa accogliente che ci prepara al mondo che verrà, quello spietato e cruento, quello competitivo. E quando mettiamo piede fuori casa, spesso non siamo pronti per le paure che ci attendono. Alcune paure non riusciamo nemmeno a spiegarle, altre ci cambiano per sempre. Alcune paure, dice King, ci profanano, che è una parola con un significato molto simile alla corruzione. Ed è difficile restare integri, una volta che la prima crepa nel muro delle nostre certezze comincia a intaccare tutto ciò in cui abbiamo bisogno di credere, per continuare ad esistere. C’è un punto sottile tra il momento in cui la paura ci corrompe e vince, e quello in cui vinciamo noi. Alle estremità di quei due momenti, si snodano le due vite che possiamo vivere, e sono due vite completamente diverse. E qualche volta, non sempre, ci viene persino dato il diritto di scegliere.

Avrebbe voluto dire che c’erano cose peggiori della paura. Si poteva aver paura correndo in bicicletta per la strada e scampando per un pelo all’urto con un’automobile; o di prendere la poliomielite, prima del vaccino Salk; si poteva aver paura di quello svitato di Kruschev; o di annegare facendo una capriola nell’acqua. Si poteva aver paura di tutte queste cose e funzionare lo stesso. Ma quello che aveva visto alla Cisterna… Avrebbe voluto dir loro che quei ragazzi morti scesi dalla scala a chiocciola avevano fatto qualcosa di ben peggio che spaventarlo. Lo avevano profanato.

Profanato, già. Era l’unica parola che gli sembrava adeguata, ma loro ne avrebbero riso. Gli volevano bene, lo sapeva, e lo avevano accettato nel loro gruppo, ma ne avrebbero lo stesso riso. Ciononostante c’erano cose non ammissibili. Profanavano il senso dell’ordine di qualsiasi persona sana di mente. Profanavano l’idea fondamentale che Dio avesse dato alla terra un’inclinazione sull’asse, in maniera che il crepuscolo durasse solo dodici minuti circa all’Equatore o si prolungasse un’ora o più lassù, dove gli eschimesi costruivano le loro case di cubetti di ghiaccio.

Che lui avesse così deciso e quindi avesse detto: «Okay, se capirete come funziona l’inclinazione, potrete capire tutto quello che vi pare. Perché persino la luce ha peso e quando la nota del fischio di un treno cade all’improvviso è per l’effetto Doppler e quando un aereo varca la barriera del suono il rumore che si sente non è applauso di angeli o flatulenza di demoni, ma solo aria che crolla per tornare al suo posto. Io vi ho dato l’inclinazione e poi mi sono seduto in una delle file centrali della platea per assistere allo spettacolo. Non ho altro da dire, salvo che due più due fa quattro, che le luci nel cielo sono stelle, che se c’è del sangue lo possono vedere gli adulti bene quanto i bambini e che i bambini morti restano morti».

Si può vivere in compagnia della paura, credo, avrebbe voluto dire se gli fosse stato possibile. Forse non per sempre, ma per lungo tempo, questo sì, ma forse non si riesce a vivere in compagnia di una profanazione, perché essa apre una crepa nel tuo modo di pensare e se tu ci guardi dentro vedi che laggiù ci sono esseri viventi con occhietti gialli privi di palpebre, vedi che c’è una tenebra che puzza e dopo un po’ ti viene da pensare che forse laggiù c’è un intero universo, ma diverso, un universo dove nel cielo sorge una luna quadrata e le stelle ridono con voci gelide e certi triangoli hanno quattro lati e certi altri ne hanno cinque e certi altri ancora ne hanno cinque elevati alla quinta potenza dei lati.

In quell’universo potrebbero crescere rose capaci di cantare. Ogni cosa porta a ogni cosa, avrebbe detto loro se avesse potuto. Andate alla vostra chiesa e ascoltate le vostre storie di Gesù che camminava sull’acqua, ma io, se vedessi qualcuno fare lo stesso, mi metterei a urlare e urlare e urlare. Perché a me non sembrerebbe un miracolo. A me sembrerebbe una profanazione.

Poiché non poteva dir niente di tutto questo, si limitò a ripetere: «Non è la paura, il problema. Io semplicemente non voglio essere immischiato in una faccenda che mi farà finire al manicomio».

“Nello sforzo di conciliare queste due emozioni, amore e paura, Bill sentiva di avvicinarsi al mistero dell’accettazione finale.”

Tutti abbiamo paura di qualcosa, ma non tutti reagiamo nello stesso modo, e nonostante Stephen King sia diventato famoso per i suoi libri che di paura sono intrisi, è la scelta di combatterla che distingue protagonisti e antagonisti nei suoi romanzi. Ovviamente l’infanzia, l’adolescenza, sono temi molto cari al maestro dell’horror, e tanti ragazzini sono stati protagonisti delle sue storie. Evidentemente cerca in loro quell’innocenza candida e senza secondi fini, tipica dei puri. Non sceglie ragazzini già speciali (in città c’erano altri fratelli e sorelle dei bambini scomparsi, o no? Volevano bene anche loro a chi non c’era più, o no?) bensì li rende speciali unendoli nel suo secondo tema preferito, l’amicizia, ma resta il fatto che i ragazzini protagonisti dei migliori successi di Stephen King – ricordiamo anche Il corpo (Stand by me), L’acchiappasogni… – sono stati scelti per le loro motivazioni. Sono gli unici a muoversi spinti dal senso di giustizia. Gli unici, oltre ai suoi eroi nella sua immensa produzione. Molti personaggi dei suoi libri hanno le stesse caratteristiche dei bambini. Nick Andros ne L’ombra dello Scorpione, Alan Pangborn in Cose preziose, Johnny Smith ne La zona morta. In alcuni casi la magia si compie, e un po’ di quella purezza resta incorrotta trasmigrando dall’infanzia all’età adulta, come per lo stesso Bill Denbrough in It. Un po’, non tutta. Quel po’.

È di questo passaggio che soprattutto parla il romanzo, del bambino che rinuncia alla sua innocenza per diventare adulto. Tutti i personaggi di It sono costretti a farlo prima del tempo. Beverly ha un padre tiranno che la guarda e parla in modi strani, che non capisce ma sente sbagliati. Eddie ha una madre che lo tiene legato a sé proiettandogli le sue manie. Ben deve fare i conti con il bullismo a causa del suo peso, e non gli va meglio di come Mike e Stan affrontano gli stessi problemi per via del razzismo o dell’intolleranza religiosa. Richie, poi, adulto lo è diventato per attitudine, sviluppando ironia e sarcasmo in una maniera così naturale e precoce che deve solo aspettare che il suo corpo lo segua. Infine ritroviamo proprio Bill, che non solo affronta il trauma e il senso di colpa per la morte del fratellino, ma deve anche elaborare il distacco dei genitori dopo la perdita. Stanno stretti sotto i letti sette spettri a denti stretti. Questi sette ragazzini, già provati da un’infanzia che chiede loro di crescere prima del dovuto, finiranno per trovarsi davanti solo due strade: restare innocenti a costo della vita, o cambiare, crescere, combattere, barattare la purezza per la vita. E, orrore, nessuna di queste due strade è una scelta! Georgie ha forse scelta? Georgie non sarebbe cresciuto mai, riflette Bill in visita nella sua stanza, “sei anni per sempre”. Un prezzo troppo alto, per restare incontaminato… ma It li mette alle strette e non lascia speranza alcuna. Mostra loro un mondo al di là del mondo, pericoli che sarebbero fuori scala per un esercito, figuriamoci per dei bambini. Se guardando le stelle vi siete sentiti perduti, persi nell’immensità, sapete cosa hanno provato i Perdenti scoprendo in un istante i concetti di eterno e di infinito. Concetti non rappresentabili dalla mente umana, esattamente come inconcepibile è la vera forma di It, che pur di cibarsi accetta di presentarsi in forma terrena, una forma che può essere compresa, elaborata, e come per tutte le cose che vengono elaborate, c’è infine la speranza di poterla sconfiggere.


La verità però è che sia scendendo a patti con la Mangiatrice di Mondi, sia combattendola – o tentando – non potremo comunque più restare incontaminati come lo eravamo prima. Scegliete bene con quale estremità volete giocherellare, di quel punto sottile che divide la vita di tutti i giorni da quella che potreste avere. Un po’ di paura ci tiene in vita, troppa corrompe e spinge alle soluzioni facili. Nel romanzo It, Stephen King ha usato la parola “paura” 293 volte. Sapete quale parola ha usato molto meno? “Coraggio”. Ma l’ha scelta per concluderlo.

“L’infanzia conferma la mortalità. La mortalità definisce coraggio e amore.”

Va bene, l’ultima non è proprio quella. Ma insomma, ci siamo capiti.

Alessandro Pomili & Giovanna Vizzaccaro

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It” di Stephen King, Sperling&Kupfer, 2017. Malditesto.

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