“Un taxi chiamato fedeltà” di Patti Kim: recensione libro

Un taxi chiamato fedeltà non è la semplice storia di una famiglia emigrante che si trasferisce in America alla ricerca di una vita migliore. È qualcosa di più: è la storia di come si sgretola una famiglia di emigranti, e di come una bambina di soli nove anni sia costretta a fronteggiare la doppia frattura familiare e culturale in cui si ritrova incastrata, e di come questa frattura influisca sulla sua crescita, sulle sue certezze, sui suoi sogni.

Una famiglia sgretolata

Ahn Joo ha nove anni, è coreana, e vive negli Stati Uniti insieme alla sua famiglia, ma in un ambiente in cui dominano solo tensioni, violenza e cattiveria. Il padre è un alcolizzato senza ambizioni, la madre un’isterica infelice. Tra la madre e il padre si susseguono continue discussioni che sfociano spesso in atti di violenza fisica. Sono genitori incapaci di amare e di avere una relazione con la figlia, che anzi viene spesso additata come la causa di tutti i problemi.

“Mi rimproverò per la cena bruciata, per il ventilatore rotto, per le telefonate anonime, per gli scarafaggi. Mi rimproverò perché Min Joo piangeva. Mi rimproverò perché papà beveva e comprava quei giornaletti. Diceva che era causa mia se eravamo venuti in questo orribile paese. Poi mise giù il lavoro a maglia e cominciò a piangere anche lei, borbottando che era una cattiva madre, che voleva uccidersi o fuggire via. Io mi asciugai subito il viso e le dissi che non stavo piangendo, che mi era andato qualcosa nell’occhio, che era tutto a posto, che mi dispiaceva e che non volevo assolutamente che lei morisse o se ne andasse, per favore”.

Un taxi chiamato fedeltà

patti kim un taxi chiamato fedeltàLe tensioni non accennano a stemperarsi, tanto che un giorno mentre torna a casa dalla scuola Ahn Joo vede sua madre prendere un taxi insieme a suo fratello piccolo e sparire nel nulla. Un taxi sul quale campeggia la scritta fedeltà. Ed è l’unica cosa che le rimane della madre, insieme a un biglietto in cui le promette che tornerà a riprenderla. Nonostante abbia solo nove anni Ahn Joo non si demoralizza. È una bambina tenace, che mentre continua a sognare il ritorno della madre cerca di rimettere insieme i cocci per tentare di costruire un rapporto con l’unica persona che le è rimasta: il padre.

“Chiusi il libro sui vulcani, tirai fuori il blocchetto per gli appunti e feci una lista delle cose che dovevo fare prima che mio padre tornasse a casa dal lavoro. Dovevo tagliare il kimchi e lavare i ravanelli. Poi dovevi mettere a bollire in pentola un po’ d’acqua con mezza tazza di acciughe essiccate, sale e cipolle verdi tritate per la zuppa di ravioli. Dovevo preparare il tè di mais essiccato e ci sarebbero volute almeno due ore e mezza. […] E meno tempo impiegavo a cucinare, più me ne restava per lavare i pantaloni di velluto e i jeans che mio padre usava al lavoro… […] A quel punto potevo finire velocemente i compiti e poi finalmente andare avanti con il mio libro…”.

La doppia vita dell’immigrato

Ma il padre è un immigrato che non è riuscito a calarsi nella nuova realtà, che vive negli Stati Uniti seguendo le tradizioni coreane. Ahn Joo, quindi, cresce stretta tra due realtà diverse: quella di casa, in cui ancora domina lo stile di vita coreano; quella della scuola, in cui cerca di forgiare il suo futuro, cosciente che per affermarsi in un paese straniero dovrà obbligatoriamente assimilare la nuova cultura. Ma non sarà un processo indolore.

“Sei cinese? No, non sono una cinese piatta come una tavola da surf, e nemmeno una giapponese, una taiwanese o una vietnamita. Sono una coreana americana. Cominciarono a sogghignare, guardandomi come per dire “E che differenza c’è?”. Che differenza c’è? Come tra il giorno e la notte, tra il ricco e il povero, tra la salvezza e la dannazione, tra l’inferno e il paradiso, tra il sapere e l’ignoranza, tra il colto e l’analfabeta. Tra voi e me”.

Un taxi chiamato fedeltà è un libro sui rapporti familiari, su quello tra padre e figlia, sulla difficoltà di crescere e affermarsi in una terra straniera. È un libro sull’abbandono, sulla reazione all’abbandono e sulla necessità di ricostruire la propria identità quando questa è andata in mille pezzi, anche se hai solo nove anni. Un libro affatto banale, impreziosito dall’autenticità di un racconto che raccoglie l’esperienza autobiografica dell’autrice.

“Un taxi chiamato fedeltà” di Patti Kim, edizioni 66thand2nd Editore. Libri in Pillole.

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