C’è un aspetto della migrazione che mi ha sempre molto affascinato, una condizione inevitabile con cui ogni migrante deve quotidianamente confrontarsi: è il vivere “in-between”, ovvero nel mezzo, in una terra che fisicamente non esiste ma che si colloca esattamente a metà tra il Paese d’origine e quello d’arrivo.
Uno spazio sospeso, dove il tempo scorre ma a ritmi irregolari, dove tutto paradossalmente rimane immobile ma al contempo anche tremendamente vivo e animato. Perché da una parte è lo spazio del ricordo, a volte anche idealizzato, con i suoi colori che lentamente sbiadiscono, ma che continua sempre ad avere una forza dirompente, dato che custodisce tradizioni, radici, certezze. Dall’altra è lo spazio del qui e ora, quello delle necessità primarie, delle urgenze, relativo cioè alla nuova esistenza ricostruita nel paese d’arrivo, con le sue novità, le sue prime volte, i suoi nuovi sistemi, parametri e meccanismi. Due spazi opposti che si fondono, dunque, e che vanno a convergere in quella terra di mezzo dove spesso si finisce per abitare, vestiti di una duplicità sociale, culturale e linguistica che mina la stabilità e disorienta, ma con la quale bisogna inesorabilmente fare i conti.
“Un lungo addio” di Mylene Fernández Pintado
“Chiudi la porte e sento i tuoi passi sui gradini di legno. Te ne vai senza di me: in quanti posti non potrò accompagnarti anche se vengo con te?”.
Un lungo addio di Mylene Fernández Pintado è un’antologia di racconti che spiega esattamente cosa significhi vivere l’inbetween, e lo fa con una delicatezza estrema, sfogliando con leggiadria la margherita delle possibilità di chi, a malincuore, ha dovuto abbandonare la propria terra natia, Cuba, e si ritrova a battagliare per introdursi in contesti estranei ed estranianti come Miami, New York o l’Europa. Terre dove tutte le cose sembrano funzionare bene, dove l’economia in apparenza sembra in ordine, dove la vita in apparenza sembra più facile.
Tuttavia, benché la nuova terra prometta novità e benessere, c’è un aspetto che non può essere liquidato in modo sbrigativo: è quello relativo all’identità, che va via via sempre più diluendosi. Perché chi migra non si sente né di appartenere alla terra d’arrivo, dove è e rimarrà un immigrato, né a quella d’origine, perché partire significa lasciare, abbandonare, porre distanza tra sé e le proprie radici in modo quasi definitivo, tanto da non riconoscere quasi più, quando si torna, ciò che si è lasciato.
Mylene Fernández Pintado racconta esattamente questo, ovvero la nuova esistenza dei migranti, divisi tra la nostalgia per la patria perduta e il quotidiano confronto tra tradizione e assimilazione, tra il costante lavoro di ricerca di una nuova collocazione sociale e la difficoltà di mantenere vive quelle relazioni transculturali tra chi parte e chi resta. Un’esplorazione che l’autrice conduce con sensibilità e attenzione, indagando sulle ferite intime dell’esilio, i momenti di resilienza e di riscoperta di sé di chi ha deciso di “vivere in silenzio e sognare in un’altra lingua”.
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“Un lungo addio” di Mylene Fernández Pintado, edizioni Efesto. Libri in Pillole.