“Memorie di un infedele” di Sebastiano Nata: recensione libro

Micordo di aver sentito pronunciare parecchie volte la frase “il lavoro nobilita l’uomo”, principio con il quale sono praticamente cresciuto. Essere impegnati in qualcosa, dedicare le proprie energie per raggiungere un obiettivo, investire su sé stessi con il fine di realizzarsi, emanciparsi e soprattutto ottenere quell’indipendenza economica necessaria per poter costruire il futuro con le proprie mani. Ma il lavoro è anche altro: è identità, è atteggiamenti, autocostruzione di sé stessi. Perché inevitabilmente quel terzo di giornata che dedichiamo al lavoro incide sul nostro modo di intendere la vita, modellandolo quotidianamente, fino a creare una sorta di tutt’uno tra quello che siamo e quello che facciamo.

La concezione del lavoro come elemento nobilitante è stata senza dubbio affascinante, ma con il passare degli anni sempre meno aderente alla realtà. Soprattutto in una società in cui l’aspetto economico ha preso inesorabilmente il sopravvento su quello personale: perché nella corsa forsennata al raggiungimento di risultati il sistema di produzione si è ingolosito talmente tanto da considerare l’elemento umano come un ulteriore macchinario da cui estrarre profitto. Un uomo-macchina in carne e ossa ma svuotato dell’anima, che non può incepparsi, non può allentare la tensione della catena di produzione, non può smettere di raggiungere obiettivi e generare introiti. Uno strumento, insomma, che deve produrre fino all’esaurimento delle proprie energie.

“Per non smarrirmi nella vita la mia bussola sono stati i soldi. Se faccio questo quanti ne guadagni, quanti ne perdo. Mi conviene, non mi conviene. E poi c’era l’elemento del possesso, ovvio: è mio, non è mio. Un sistema binario basato sul valore economico delle cose”. 

Ed è proprio in questo loop lavorativo che le ore scorrono, i giorni scorrono, i mesi scorrono, gli anni scorrono, e insieme a loro vanno via grossi pezzi di vita che non torneranno mai più. Quanta vita perdiamo quando ci lasciamo assorbire interamente dal lavoro?

È l’interrogativo che si pone Tommaso Alfieri, protagonista del romanzo di Sebastiano Nata, che giunto all’età della pensione si volta indietro e prende coscienza delle macerie che ha prodotto la sua carriera nella multinazionale Transpay: una casa vuota, riempita solo da quella solitudine guadagnata sul campo da chi nella vita ha sempre invertito l’ordine delle priorità tralasciando famiglia, moglie, figli e affetti per dedicarsi alla carriera lavorativa e all’inseguimento del denaro.

“In quel periodo mi chiedevo spesso con angoscia cosa avessero un programma per me. I dipendenti Transpay venivano ogni anno classificati dentro un quadrato suddiviso in nove caselle. Sull’asse delle ascisse c’erano tre livelli di performance, bassa-media-alta, e su quelli delle ordinate gli equivalenti tre livelli di potenziale. Chi era nella casella 1 aveva pochi giorni di vita in azienda. A chi risultava collocato nella 9 veniva riservata una fulgida carriera. Gli altri, in diversi stati d’ansia per il rischio di essere espulsi o la frenesia di guadagnarsi una promozione, erano in bilico. Ma tutti, non conoscendo il proprio numero, camminavano sul filo. Io sapevo il voto di ciascun membro della squadra che guidavi, non il mio, che portavo sopra un cartello appeso alla schiena”. 

Memorie di un infedele è un romanzo incentrato sul rapporto uomo-lavoro-famiglia, che invita a una riflessione sulla gestione dell’elemento più prezioso dell’essere umano, il tempo. Sebastiano Nata, attraverso una narrazione pacata ma al contempo incisiva, approfondisce la voracità del capitalismo e la conseguente disintegrazione della vita personale dell’uomo-lavoratore, i cui spazi privati sono molto spesso trangugiati da un sistema che si disinteressa totalmente dell’aspetto umano, privilegiando esclusivamente quello economico.

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“Memorie di un infedele” di Sebastiano Nata, edizioni Bompiani. Libri in Pillole.

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