Guardare, osservare, vedere: tre verbi che sembrano comunicare la stessa azione, ma che si differenziano per alcuni aspetti fondamentali. Perché guardare, che deriva dal germanico wardōn ed è traducibile con “stare in guardia”, significa soffermarsi con lo sguardo su qualcosa; osservare, invece, deriva dal latino observare, che può essere tradotto con serbare, custodire, considerare, e implica un approccio più analitico, ovvero osservare con il fine di capire meglio; vedere, invece, proviene dal latino vĭdēre, e indica l’atto percettivo in sé, cioè percepire con gli occhi qualcosa mediante la vista.
Tre verbi simili ma diversi, che presuppongono un diverso grado di inazione: perché malgrado tutti e tre comunichino un’idea di immobilismo fisico, eccezion fatta per il movimento degli occhi, guardare e osservare implicano anche un coinvolgimento attivo della mente, che incorpora le immagini e le processa per estrapolare indicazioni, informazioni o significati di ciò che la vista ha registrato.
Ed è esattamente su questi binari che si muove Dodo, il protagonista de L’uomo che guarda di Alberto Moravia, romanzo che fa parte della tarda produzione letteraria dell’autore romano. Dodo è un trentacinquenne, docente di francese, sposato con Silvia ma ancora estremamente legato al padre, con cui condivide la casa insieme alla moglie: è un uomo che sembra vivere prigioniero della propria passività, perché guarda e osserva ma poi, in fondo, è come se si limitasse solamente a vedere, e diventa ben presto spettatore della propria vita, dei propri sentimenti, delle proprie tragedie personali. Guarda, osserva, vede, ragiona ma non agisce. Guarda, osserva, vede e processa il mondo intorno a sé fino a ricostruire le cause del suo disagio; guarda, osserva, vede e processa i suoi limiti, le sue paure, le sue incapacità, ma senza reazione alcuna, come se il disagio stesso fosse un compagno di viaggio del quale non si può liberare.
E Moravia delinea alla perfezione le modalità con cui Dodo assiste al lento e graduale frantumarsi davanti a sé della sua vita, delle sue poche certezze, dei suoi pochi affetti: perché l’uomo rimane inerme davanti a ciò che guarda e osserva, cerca vie alternative all’azione, che non gli appartiene e che, ogni volta che tenta di intraprendere, gli risulta forzata, innaturale, brusca, quasi violenta nella sua stessa inadeguatezza.
Credo sia per questo che ho percepito un continuo malessere mentre leggevo le pagine di questo libro: perché il resto, il suo rapporto conflittuale con il padre, la relazione ambigua con la moglie, finanche quella con l’infermiera che assiste il padre infermo, la sua ossessione per il nucleare e le sue perversioni sessuali, è filtrato attraverso la lente del costante disagio che caratterizza la vita del protagonista, capace sì di capire e comprendere ciò che accade intorno a lui, ma allo stesso tempo incapace di affrontare e risolvere quelle criticità che lo trascinano progressivamente nelle sabbie mobili di un’esistenza fatta di rassegnazione davanti a ciò che appare inesorabile, o che, forse, lui stesso non è in grado di governare.
Continuo ad avere un debole per Moravia, perché nei suoi scritti ritrovo un’analisi sempre molto approfondita dell’essere umano, delle sue vulnerabilità e della sua fallibilità, di quei limiti che l’autore romano evidenzia con straordinaria lucidità per insistere sulla decadenza di una borghesia che appare costantemente in crisi, sempre troppo passiva, priva non solo di morale ma anche di quella vitalità necessaria per reagire alle situazioni avverse.
“L’uomo che guarda” di Alberto Moravia, edizioni Bompiani. Libri in Pillole.
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