Furore di Steinbeck non è un semplice libro. È qualcosa di più. Basta iniziare a leggere le prime pagine per capire che siamo davanti a una macchina del tempo, che spalanca automaticamente la sua porta per inglobarci nella sua capsula e catapultarci in un mondo che, nonostante appaia lontano, dista solo una novantina di anni.
Indietro negli anni ’30
Siamo negli anni ’30, negli Stati Uniti. Le tempeste di sabbia, la Grande Depressione e soprattutto l’avvento delle macchine agricole costringono i contadini ad abbandonare le loro case e i terreni che con sangue e sudore hanno coltivato. Il raccolto non è più sufficiente, le banche reclamano profitti maggiori, dunque non c’è più spazio per la mezzadria: saranno le macchine a sostituire l’uomo, espulso da quella terra che era stata per lui sinonimo di vita.
“Un uomo può tenersi la terra finché ha di che mangiare e pagare le tasse; questo può farlo. Sì, può farlo finché un giorno non gli va male un raccolto, e a quel punto deve farsi prestare i soldi dalla banca. Ma, vedete, una banca o una società questo non possono farlo, perché non sono creature che respirano aria, che mangiano carne. Respirano profitti; mangiano interessi sul denaro”.
Inizia così la lunga migrazione di tutti quegli agricoltori che dal Midwest sono costretti a marciare verso Ovest, verso la California, verso quelle terre dove c’è ancora bisogno di manodopera umana. E tra questi migranti c’è la famiglia Joad: tre generazioni in viaggio forzato, nonni, genitori, figli, costrette a ricominciare da zero, ad abbandonare tutto ciò che avevano costruito. Per cercare fortuna? No, per cercare lavoro nei campi, che assicuri loro sopravvivenza. Semplice, sopravvivenza.
E Steinbeck ci regala un’opera che vale più di un film. Perché attraverso le parole si viaggia con i Joad, si soffre con loro, si respira la polvere e l’odore di terra che respirano loro. Non si può fare a meno di empatizzare con questa famiglia che, seppur senza nulla in mano, si aggrappa alla vita con le unghie, superando gli ostacoli con una dignità e un coraggio che non vengono mai meno. Oggi dover lottare per un pezzo di pane sembra fantascienza. Eppure a quell’epoca era pura e triste realtà.
Qui per ascoltare l’audio recensione:
Furore di John Steinbeck: un capolavoro
Furore è un capolavoro, definizione troppo spesso utilizzata in modo improprio. E lo è perché Steinbeck non solo diventa cronista di un’epoca storica, raccontando le lotte di classe e le storture di un sistema che badava solo ai profitti, ma lo fa dipingendo uno a uno ogni essere umano che entra nella narrazione, in modo vivido, reale, veritiero. La caratterizzazione dei personaggi è un’opera perfetta: ognuno col suo profilo ben definito, con la sua evoluzione, con la sua storia e le sue reazioni. Ci si ritrova dunque a vedere i Joad mentre si muovono, ed è possibile quasi vedere i gesti, il modo di parlare, finanche le espressioni di quei volti induriti dalla povertà ma al contempo ammorbiditi da una costante, immancabile, umanità. Perché sebbene poveri, questi emarginati della società sanno fare comunità, conoscono il valore della memoria, il sapore del cameratismo. E nonostante quei volti siano spigolosi, seri, segnati dal logorio del quotidiano, nascondono un amore per il prossimo che commuove, che rinvigorisce, perché l’uomo può sì perdere tutto, all’uomo si può sì togliere tutto, ma mai il sangue che scorre nelle vene, che continuerà sempre a fluire fino a quando ci sarà la voglia di lottare.
“Perché io ci sarò sempre, nascosto e dappertutto. Sarò in tutti i posti, dappertutto, dove ti giri a guardare. Dove c’è qualcuno che lotta per dare da mangiare a chi ha fame, io sarò lì. Dove c’è uno sbirro che picchia qualcuno, io sarò lì. Se Casy aveva ragione, be’, allora sarò negli urli di quelli che si ribellano. E sarò nelle risate dei bambini quando hanno fame e sanno che la minestra è pronta. E quando la nostra gente mangerà le cose che ha coltivato e vivrà nelle case che ha costruito, be’, io sarò lì”.
“Furore” di John Steinbeck, edizioni Bompiani. Libri in Pillole