“Branchie” di Niccolò Ammaniti: un viaggio piacevolmente caotico e psichedelico

Ho scoperto Niccolò Ammaniti nel 2005 quando, per l’esame universitario di sociologia della letteratura, la professoressa Elisabetta Mondello incluse nel programma di studio alcuni libri scritti da autori che avevano fatto parte dei Cannibali, una sorta di fenomeno letterario che si sviluppò nella seconda metà degli anni ’90. Tra i titoli da studiare ce n’erano due davvero sorprendenti: Destroy di Isabella Santacroce e Branchie di Niccolò Ammaniti.

“Branchie” di Niccolò Ammaniti

A distanza di quasi vent’anni sono voluto tornare lì su quella stessa mattonella letteraria sulla quale camminai da giovane studente universitario, per verificare se il ricordo di Branchie fosse in linea con il nuovo giudizio del me quarantenne. E devo dire che l’opinione non è affatto cambiata: perché malgrado questo sia il primo romanzo scritto dall’autore romano, alla sua prima vera esperienza editoriale, al suo interno ci sono talmente tanti spunti originali da renderlo un viaggio totalizzante dal quale non si vorrebbe mai uscire.

Protagonista della narrazione è Marco Donati, un ragazzo malato terminale di cancro che però rifiuta di essere curato e che trascorre la sua esistenza, fatta di amarezza e depressioni, rinchiuso nel suo negozio di pesci e acquari oramai chiuso.

“È la vita, che mi grava addosso. È tutto. È quello che dovevo fare e non ho fatto. Sono le cose che ho cominciato e non ho mai finito. Le lezioni di pianoforte. La bocciatura in secondo liceo. È mia madre che mi dice non ti capisco”.

Neanche la compagnia dell’avvenente fidanzata Maria riesce a scuoterlo dal suo stato di torpore, ma un giorno riceve a sorpresa una misteriosa lettera proveniente dall’India che gli cambierà la vita.

Un viaggio piacevolmente caotico e psichedelico

Inizia qui il viaggio piacevolmente caotico, psichedelico e folle di Marco, e di chi ha scelto di leggere questo romanzo, esattamente nel momento in cui davanti a lui inizia a prendere forma un’India surreale e grottesca, dove si fondono elementi asiatici e romani fino a costruire un terzo spazio in cui tutto sembra impossibile, risultando al contempo perfettamente credibile. Perché Ammaniti gioca con i diversi livelli della realtà, schiacciandoli uno sull’altro, separandoli per poi farli di nuovo sovrapporre, senza mai farli correre paralleli: ed ecco quindi Marco che si ritrova a suonare il didgeridoo sotto alle fognature di Nuova Dehli, poi a scappare da una misteriosa banda di “arancioni” che lo insegue con un’insistenza ai limiti dell’ossessivo, o a mangiare baccalà, broccoli e curry insieme a un combriccola di amici decisamente bizzari, fino a rimanere invischiato in una missione “salvamondo” che oscilla tra il fantastico e lo splatter.

Branchie è un romanzo piuttosto breve e stravagante, ma ciò che colpisce di più di questo racconto lungo è la capacità dell’autore di convincere il lettore a dare credito alla narrazione, malgrado sia progressivamente sempre più inverosimile. E lo fa attraverso una scrittura essenziale, diretta, a tratti cruda, che diventa il gancio necessario per camminare contemporaneamente su due mondi, quello del reale e quello dell’improbabile.

E in questo quadro, che a prima vista appare prevalentemente ironico e superficiale, c’è spazio invece anche per riflessioni più ampie: perché Ammaniti non risparmia critiche a quella società anni ’90 fatta di vacuità, luccichii e paillettes, agli interventi chirurgici estremi finalizzati a “plastificare” il corpo per sconfiggere rughe ed età e raggiungere l’eterna gioventù, raccontando, dall’altra parte, il disorientamento di chi invece non si riconosce in questo tipo di pratiche e cosa significhi sentire la necessità di cambiare senza avere però la forza e il coraggio di farlo.

Insomma, a modo suo, ma Ammaniti non ha scritto una favoletta passatempo: Branchie è un libro divertente, piacevole e, senza dubbio, originalissimo.

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“Branchie” di Niccolò Ammaniti, edizioni Einaudi. Libri in Pillole.

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