“Il cardellino” di Donna Tartt è finalmente uscito dalla lista dei libri che avrei voluto leggere. Dico “finalmente” perché era da tempo che troneggiava minaccioso, con le sue quasi novecento pagine, sul mio comodino: un bel mattone verso cui provavo al contempo attrazione e repulsione. La repulsione derivava da un mio problema di monogamia libraria (davvero devo impegnarmi in una lettura così lunga con tutti i titoli che si aggiungono alla pila che i frequentatori di tiktok chiamano TBR?), mentre l’attrazione era frutto della felice esperienza con “Dio di illusioni”, primo libro di Tartt, che ho amato alla follia.
Ora che ho chiuso il tomo, che è valso all’autrice il premio Pulitzer per la narrativa nel 2014, posso dire che la dicotomia emotiva con cui l’ho affrontato è sempre qui, solo sono mutati gli stati d’animo.
Puoi guardare un’immagine per una settimana e poi non pensarci più. Oppure puoi guardare un’immagine per un secondo e poi pensarci per il resto della vita.
La digressione di Theo comincia in una stanza d’albergo di Amsterdam. Lo troviamo adulto, malato e paranoico: qualcosa di grosso è successo e per scoprire di cosa di tratta dobbiamo seguire il protagonista nel racconto della sua vita, dal giorno in cui la sua vita cambiò.
Il giovane Theo era un ragazzino come molti: compagnie sbagliate, un’intelligenza che avrebbe o non avrebbe potuto sprecare, un padre svanito nel nulla e una madre a cui era legato in modo profondo. Ed è proprio la morte di quest’ultima in seguito a un evento violento e traumatico a ridisegnare l’intera esistenza di Theo. In peggio. Forse. Perché come ci insegnerà molte pagine dopo Boris, l’amico tossico che un Theo adolescente incontrerà a Las Vegas, anche una strada sbagliata può portare al bene.
Magari a volte – il modo sbagliato è quello giusto? Magari prendi la strada sbagliata e ti porta comunque dove volevi? O vedila in un altro modo, certe volte puoi sbagliare tutto, e alla fine viene fuori che andava bene?
Seguiremo Theo nella New York più benestante, in una squallida Las Vegas, di nuovo a New York e poi ad Amsterdam; come compagni di questo viaggio due costanti: un dolore che non conosce guarigione e un quadro, “Il cardellino” che dà il titolo al romanzo e che, come una spada di Damocle, è sempre lì, invisibile eppure presente, a definire la vita del ragazzo.
Ho salutato Theo, Hobie (che chissà perché nella mia mente ha assunto le sembianze di Hervé Tullet) e Boris da qualche giorno eppure fatico ancora a pensare di iniziare un altro libro. L’eco di questa storia è ancora qui con me, perché Tartt sa definire sempre in modo doloroso i contorni della dannazione e lo fa con parole precise e mirate, senza pietismi o sensazionalismi, ma con un verità che ti penetra e continua a risuonare.
Ci sono stati momenti, durante la lettura de “Il cardellino”, in cui avrei voluto che l’editor le avesse imposto qualche corposo taglio, perché i cerchi concentrici che Tartt inscrive nella storia per portarti sempre più a fondo tendono a tornare e tornare e tornare e allora forse si poteva alleggerire, ma comunque mi sono sempre ripresentata alle pagine de “Il cardellino”, come attratta da un gigantesco magnete narrativo.
Continuo a preferirgli “Dio di illusioni”, ma l’ho comunque trovato un libro che conferma il talento dell’autrice.
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“Il cardellino” di Donna Tartt, Rizzoli.