“Le correzioni” di Jonathan Franzen: recensione libro

“Ogni famiglia infelice è infelice a modo suo” …in Russia è stata un’affermazione sicuramente veritiera, negli Stati Uniti, specie nel Midwest invece, se non ci fosse Franzen a raccontarcene una, di famiglia infelice, è forte il sospetto che le famiglie infelici siano, o perlomeno siano state, tutte uguali.

Uguali in quell’ossessione “stellestrisciante” di primeggiare, uguali nell’operare le correzioni indispensabili ai padri per essere meglio dei padri, ai vicini per essere meglio dei vicini, per far sì che i loro figli possano essere meglio di quelli degli altri, nello sport, nello studio, nel lavoro, migliori nel fare figli migliori dei padri e poi nipoti migliori dei nonni, tutti in ginocchio ad allineare biglietti verdi per misurare la loro omologata diversità, a misurare l’entità del proprio privilegio in base a università e quartieri residenziali, cantando lodi alla forza salvifica delle correzioni per esorcizzare la paura della correzione economica che potrebbe travolgerli.

Il tutto a St. Jude, località fittizia, ma quanto mai paradigmatica, dove si condisce la vita con olio, aceto e una sorta d’ipocrisia egualitaria, una sorta di parvenza di felicità, un po’ come in Russia, dove dobbiamo un momento tornare, e dove, per convincere la Caterina II della qualità di vita nella provincia, nel finto Villaggio Potëmkin si tiravano su facciate delle case in cartone per abbellire il percorso dove sarebbe passata la sua carrozza. Ecco, aggiriamo insieme a Franzen una di queste facciate di facciata, e andiamo a conoscere i Lambert: il capofamiglia, Alfred, uomo rigido con se stesso e rigido con gli altri, uomo lavoro lavoro e sacrificio, ormai vecchio e malato, assurge a tragico simulacro del suo simulacro esistenziale, e nonostante tutto tenta di imporre la sua vacillante volontà alla moglie, Enid, donna malata di apparenze e conformismo, che tenta a sua volta d’imporre a figli e nipoti l’ultima correzione, rappresentata da una sorta di Pranzo di Babette natalizio destinato a suggellare un’esistenza perfetta, compendiata in duecento foto color seppia. Tre sono i figli, Gary, Chip e Denise, alle prese con i loro fallimenti, da correggere quanto prima e a qualsiasi costo, e con le correzioni che ormai, a loro volta, dovranno imporre ai genitori.

Superato un incipit finemente cesellato che potrebbe sembrarvi sdrucciolevole e impervio, una sorta di ostacolo che dovrete superare, come quello con cui si apre la sceneggiatura di uno dei personaggi, sarete trascinati nel vortice depressionario di queste cinque esistenze, in un’entropia di tempi narrativi utili a stigmatizzare le contraddizioni dei Lambert, per poi indulgere sulle stesse, perché Franzen sembra “abortire l’America e poi guardarla con dolcezza”. Perché Franzen, come ci spiega la bravissima Silvia Pareschi, vuole superare il postmoderno e tornare a una sorta di romanzo sociale. Perché Franzen è Grande nel narrare, Grande nel condannare, ma è Grande anche nell’assolvere, o perlomeno nel concedere attenuanti, cosa che certo non sfuggirà all’occhio del lettore più attento. È Grande in questo Grande romanzo americano che si aggiunge ad altri Grandi romanzi americani nel chiudere un Lungo secolo di storia, nel tirarne le somme… i nomi? i titoli? …sceglieteli voi, così non faccio torto a nessuno.

“Le correzioni” di Jonathan Franzen, edizioni Einaudi. I libri di Riccardo

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