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“L’armadio segreto” di Marina Cvetaeva: recensione libro

Vi è un intreccio indissolubile tra l’artista e la sua biografia: da questo solido e vivido legame nasce l’arte; quella migliore, poiché vissuta, amata, odiata, coccolata, sentita, esperita, della quale l’artista sente essere un’esigenza insopprimibile, che se risultasse inascoltata, lo colpirebbe, gli farebbe del male, gli risulterebbe insopportabile addirittura vivere. Così, l’asseconda. E, da questo stato di cose, si generano meraviglie, letterarie, in questo caso.

Che cosa contiene “L’armadio segreto” di Marina Cvetaeva?

Ebbene, l’opera della quale vi lascio le mie impressioni non è un romanzo – niente trama, quindi – bensì un volume (piccolo), in cui tutto quanto ho accennato prima trova accoglienza, che raccoglie alcune opere di una delle poetesse russe più importanti (e originali) del XX secolo: Marina Cvetaeva. Il titolo del volume stesso è “L’armadio segreto”. In esso è contenuto un saggio autobiografico dal titolo “Il mio Puškin”, autore che la poetessa amava molto e la lettura delle cui opere, in un «armadio segreto della camera rossa» quando era ancora bambina, la iniziò all’arte poetica, arte che non abbandonerà più da allora, e due cicli: “Insonnia”, il cui concetto, che ne dà il titolo, inerisce non a qualcosa di «passivo», come suggerisce ella stessa in una intervista del 1923, ma all’idea di “insonnia” come «vegliare», ossia come ciò in cui si ravvisa un’esigenza di non dormire – tale esigenza sembra scaturire dal fatto che, proprio come scrisse in una lettera alla sorella, «quando si avvicina la notte io ho paura di lei, come di un uomo dietro l’angolo. È per questo che scrivo di notte, così è meno duro, mi corico quando ormai non ho più forze…» –, e “Versi a Blok”, poeta russo tanto ammirato dalla Cvetaeva da considerarlo un Dio.

La poesia di Marina Cvetaeva è impegnativa ed è arditissima

Se nel saggio autobiografico il curioso che voglia capire come può nascere l’amore per la poesia (in una bambina) vedrà nutrita la sua curiosità, è certamente con la lettura dei versi dei due cicli poetici che a egli si svela, si scopre Marina Cvetaeva. La lettura dei suoi versi non è facile ed è arditissima. Non è facile per diversi aspetti stilistici e grammaticali, come a esempio l’uso tutto particolare del tiré (o trattino: “—”): “nella lingua russa [– come ci spiega una nota –] esso serve per rendere il verbo essere, ma oltre a ciò nella Cvetaeva esso assume la funzione di isolare e evidenziare la parola o un concetto, restituendo tutta la carica di immagine e sintesi poetica.” Ed è arditissima perché, se all’inizio il suo intento è quello di descrivere con una precisione certosina le situazioni di cui parla con un uso sempre molto parsimonioso di parole, quasi come se volesse avvalersi di fugaci ma nitide immagini cariche di sensazioni potentissime, successivamente, «con gli anni questa esigenza si fa più pressante, diventa necessità di penetrare la cosa, di arrivare alla sua essenza, non più di descriverla, ma di riprodurla tramite la parola.» Insomma, il suo intento alla fine giungerà a essere quello di riprodurre la cosa (che prima descriveva) attraverso la parola.

La poesia di Marina Cvetaeva chiede al lettore lo stesso sforzo e la stessa tensione che a lei sono servite per scrivere i suoi versi

Marina Cvetaeva
(Fonte: www.poesiainrete.com)

Così, «dalla «scorrevolezza» del verso [di “Insonnia”, a esempio,] la Cvetaeva si allontanò sempre più con il passare degli anni, pretendendo dal suo lettore sforzo e tensione, quello sforzo e quella tensione che a lei costava il «mestiere» di comporre. […] Nel 1921 [anno in cui più o meno si realizza questo passaggio dalla “descrizione” alla “produzione”] il ritmo si è fatto serrato, frenetico, in un continuo rincorrersi di assonanze, di esclamazioni, di imperativi, che obbligano ad una lettura non «facile», ma che non diventano mai puro gioco verbale, scaturendo dall’esigenza interna di rendere con il suono, con il ritmo una particolare situazione psicologica.»

Una poesia che, per me, rappresenta bene Marina Cvetaeva

Vi è una poesia nel ciclo “Insonnia” che, per me, ben rappresenta Marina Cvetaeva la quale, nonostante dica di avere paura della notte, sa essere quello l’unico momento in cui il verso prende vita luminoso:

Nera come una pupilla, come una pupilla

succhiante

La luce — io ti amo, notte penetrante.

Dammi la voce per cantarti, o progenitrice

Dei canti, nel cui palmo le redini stanno dei

quattro venti.

Te chiamando, te glorificando, sono soltanto

Una conchiglia, dove ancora non s’è ammutolito

l’oceano.

Notte! A lungo ho già guardato in pupille di

uomo!

Fammi cenere, sole nero — notte!

Leggendo “L’armadio segreto” si potrà fare esperienza di ciò che vuol dire per un verso incarnare la vita di chi l’ha creato

Non so a chi potrebbe piacere questo libro, ma ne consiglio comunque la lettura. Io, per parte mia, sebbene la lettura stessa, la comprensione, la profondità dei suoi versi spesso mi sono risultate difficili da cogliere, ho potuto cionondimeno apprezzare e conoscere una poetessa che Boris Pasternak definiva un’“artista diabolicamente grande”; ora, ciò che posso promettere all’ipotetico lettore, nel caso in cui gli venisse in mente di approcciarsi alla “diabolica” poesia di Marina Cvetaeva, è che avrà senza dubbio la possibilità di avere esperienza di che cosa voglia dire per un verso incarnare la vita di chi l’ha creato.

“L’armadio segreto” di Marina Cvetaeva, edizioni Marcos y Marcos Editore. A voice from apart.

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