Figlie di Brooklyn è il classico esempio del perché la lettura sia una così alta fonte di arricchimento personale. Eppure stiamo parlando di un libro che volevo lasciare a metà, forse perché il tipo di scrittura e di struttura narrativa non è propriamente nelle mie corde. O almeno così credevo.
Il lettore è rapito dalla bellezza della scrittura della Woodson e dal suo stile ma si fatica un pochino a comprendere dove voglia andare a parare, arriva cioè un momento, perlomeno così è stato per me, di vero e proprio impasse, in cui il timore è quello di essere di fronte all’ennesimo esercizio di stile ridondante e narrativamente sterile e fine a sé stesso. Ma, appunto, si tratta di un momento che viene immediatamente spazzato via.
Un libro da gustare come un buon vino

Quello che rende particolarmente efficace la lettura di questo libro è lo stile della Woodson, che usa appositamente una narrazione in prima persona con uno stile molto trasognato, quasi onirico, dove il confine tra immaginazione e realtà è a volte labile. Stile che però è perfettamente coerente con il personaggio in questione e che è possibile capire solo nelle ultime pagine. Il suo è una sorta di flusso di coscienza fatto di frammenti e ricordi che ruotano ai quattro o cinque personaggi più significativi della sua infanzia e adolescenza. Ma questi ricordi sono avvolti da una patina scivolosa che li rende difficili da afferrare per il lettore, quasi come se ci fosse una sorta di foschia che ci impedisce di vedere chiaramente. Questo tipo di atmosfera è molto abilmente ricreato dalla Woodson a rimarcare la difficoltà nell’accettare un passato troppo doloroso.
Una lettura importante che lascia nel lettore la concreta consapevolezza di essere di fronte a qualcosa di veramente importante e la assoluta curiosità e smania di leggere altro di questa grande scrittrice.
“Figlie di Brooklyn” di Jaqueline Woodson, edizioni Clichy