Ci sono libri che hanno la capacità di incantare per come sono scritti, che sembrano poesia in prosa. Altri che hanno la capacità di tenere il lettore incollato alla pagina. Poi ci sono quelli come L’anno che Bartolo decise di morire. Libri di cui semplicemente non ci si capacita, in cui sembra impossibile racchiudere in così poche pagine un numero tanto elevato di emozioni e contenuti.
Un libro che ti entra sottopelle
Tutti noi conosciamo un figlio di papà, quello che ha gli agganci giusti, quello ammanicato che si è già sistemato; oppure quella che deve accasarsi a tutti i costi come se fosse un impulso sociale, una necessità di sistemarsi tanto da farne il sogno per realizzare il quale è disposta a tutto, anche a scambiare l’amore per gratitudine e tranquillità. Oppure ancora l’amico che non ha una grande dimestichezza col proprio passato e coi propri fantasmi, quello che ha imparato e ha creduto che il nasconderli a se stesso e agli altri sia un ottimo modo per farli scomparire. O quello furbo che ha procurato non pochi imbrogli e delusioni, dissoluto e inattendibile, incapace di non tradire le persone a lui più vicine, che però resta sempre a galla, cade sempre in piedi perché per gli altri pur di restare vicini e non rimanere da soli è meglio a volte non dire la verità, è meglio non affrontarsi.
Personaggi che diventano sfaccettature di noi stessi

Poi abbiamo quello discreto, quello che non protesta mai per paura di esporsi, che non prende posizione perché la calma è la virtù dei forti, perché poi alla fine se si prende posizione magari qualcuno si offende, si sente aggredito, insultato perché un domani non si sa mai di chi puoi avere bisogno. Infine c’è quello del vivi e lascia vivere, del ognuno per sé, del non importa quello che fanno gli altri, l’importante sono io. Eppure tutti questi personaggi alla fin fine non sono altro che delle sfaccettature di noi stessi, siamo noi. Sono la nostra incapacità di schierarci nettamente dalla parte giusta, sono la nostra ipocrisia e le nostre maschere, il nostro non voler alzare troppo la voce per paura di scomodare o infastidire qualcuno di cui in futuro potremmo aver bisogno. Sono la nostra incapacità di pensare con la propria testa e di fare le cose perché lo riteniamo giusto o di non farle perché lo riteniamo sbagliato, sono i nostri vincoli sociali, che ci portano a sposarci, fare i figli, andare in chiesa perché c’è scritto così, sono la nostra incapacità di solidarizzare con chi è in difficoltà, sono il nostro modo di voltare le spalle, di girarci dall’altra parte di fronte al dolore e alla sofferenza anche di chi ci è più caro. Sono il marchio a fuoco della nostra mediocrità e meschinità, il modo che abbiamo di dire a noi stessi be’ tanto io sono solo una goccia nel mare, che differenza può fare?
Eppure tra di noi c’è sempre un Bartolo, c’è qualcuno a cui interessa e che soffre per tutto ciò che lo circonda e che si danna l’anima, c’è qualcuno che non riesce a stare zitto. Qualcuno in grado di andare oltre l’omertà, qualcuno che ha il coraggio di dire le cose come stanno anche a rischio di fare la parte del rompiscatole, del complottista, del pessimista, del disfattista, del guerrafondaio del moralista, dell’impiccione e del buonista. Esiste tra noi quel qualcuno che non fa la morale col sedere degli altri, che se vede le cose le denuncia e non aspetta che scappi il morto per poi far durare il proprio dolore il tempo di un piagnisteo ipocrita a un funerale per poi non parlare più e fare finta di niente. Esiste qualcuno per cui la gentilezza è un valore indissolubile, per il quale ascoltare gli altri vale quanto ascoltare se stessi, per il quale l’ascolto di fronte a un altro essere umano addolorato è una necessità e non una falsa promessa. Eppure chi fra noi si identifica in Bartolo prima o poi deve fare una scelta, perché sembra incredibile a dirsi ma di gentilezza si può perire, un animo troppo sensibile e troppo gentile è destinato a soccombere.
Il tema del suicidio
La certezza che si è vivi è proprio questo: sbagliare, soffrire.
Quella parte di noi che è viva, che soffre, che sente si chiama Bartolo. Quella è la parte che prova rabbia: una rabbia vitale, una rabbia che è dignità perché ci permette di indignarci di fronte a certe cose. Quella è la parte che parla di amicizia e di amore vero, valori ai quali non può preferire i buoni rapporti da mantenere ad ogni costo, rapporti basati sul nulla, rapporti del va tutto bene, dei convenevoli e delle formalità, rapporti che non implicano alcuno sforzo, nessun impegno e nessuna responsabilità, rapporti senza contenuti e dove l’unico aggettivo che conta è quello possessivo declinato alla prima persona singolare. Ebbene alcuni di noi a un certo punto decidono che non ne possono più, che quella parte, quel Bartolo se ne deve andare. Decidiamo pertanto di nascondere Bartolo per smettere di soffrire e di essere arrabbiati, per non venire feriti finiamo per seppellirlo.
L’anno che Bartolo decise di morire è un libro evocativo ma molto intimo, scritto con estrema grazia e in modo sublime, un libro che offre un quadro impietoso di una società in crisi più di valori che di cifre economiche.
Valentina Di Cesare è una profonda conoscitrice dell’animo umano, e ha scritto un libro destinato a restare dentro.
L’anno che Bartolo decise di morire di Valentina Di Cesare, Arkadia Editore. I libri di Marco.