Viviamo in un’epoca strana, malata. Un’epoca di sfiducia e disillusione, dove l’ignoranza è tornata a essere di moda e quasi un vanto e una medaglia da esporre. Questa è l’epoca in cui tutto è possibile, in cui non ci sono limiti alla conoscenza. Uno strumento come internet diventa un contenitore di informazioni illimitato e accessibile a tutti. Eppure tutta questa conoscenza viene utilizzata nella maniera più sbagliata possibile, oggi chiunque può millantare conoscenze tecniche in campi come la medicina, l’ingegneria edilizia, la finanza internazionale o più banalmente il calcio.
Siamo diventati un popolo di economisti, dottori e allenatori che hanno conseguito la laurea all’università della vita, mentre hanno fatto la specializzazione presso la prestigiosa accademia di Google.
Un romanzo distopico?
Per questo che rimango perplesso quando si parla de la festa nera come di un romanzo distopico.
La festa nera è un libro che vibra nell’etere, non si può definire e incasellare in un genere. È il classico libro che parla a tutti ma che a ciascuno di noi lettori dice una cosa diversa. È un libro fiction di non fiction, è Black mirror e The blair witch project messi insieme. Anzi no. È molto di più. È un romanzo post apocalittico che parla del presente e che ci sbatte in faccia che l’apocalisse è oggi, adesso. Ma non solo. L’apocalisse sembra essere l’unica alternativa possibile a questo stato di cose.
“Faccio il medico legale, dice. Sul serio? Yeah, bitch. Mangiati un biscottino. Quindi stai in mezzo ai cadaveri tutto il giorno. Non mi posso lamentare, dice. È facile andarci d’accordo. Con i vivi è sempre una lotteria.”
Siamo nel 2026, statale 45 Genova Piacenza, in piena Val Trebbia. C’è stata la fine del mondo, ma non si capisce esattamente cosa sia successo. Non importa. Le strade sono un macello, rovine ovunque, camion incendiati, cavalcavia crollati. Ali, Misha e Nicola sono tre ragazzi figli di un’epoca terribile, ciascuno con i propri traumi e fantasmi, irrimediabilmente rotti, che cercano di riparare la propria crepa a suon di sonniferi e benzodiazepine la sera per poter svenire nel sonno e non pensare. Non sognare. Sono questi gli unici ingredienti che conoscono per potersi rapportare con la realtà.
“Poi le tocco il polpaccio, la caviglia. Le sue cicatrici sono…strane, spesse, di carne. Le cicatrici sono carne. Lo sapevo e non lo sapevo. Il dolore è l’unica cosa vera che ci è rimasta. No. Non devo lasciarmi prendere. Questo non è il mio posto. Io lo odio, il dolore. Mando giù medicine tutte le notti per non sentirlo. Però, sul corpo di qualcun altro, è una medusa.”
Questo trio strampalato si mette in viaggio per fare un documentario, sono dei reporter, degli youtuber. E qui siamo in uno dei punti cardini dell’intero romanzo. In una recente intervista, Violetta Bellocchio sostiene che in Italia non si è perso tanto e solo il senso di umanità, bensì quello che è venuto a mancare è il senso di appartenenza a una comunità, il senso di condivisione visto come forma di inclusione. Non di esclusione. Paradossalmente, aggiungo io, l’unica forma di condivisione odierna è quella dei social, ma più come ostentazione e divisione.
Credo sia sotto gli occhi di tutti come questi social siano un enorme oceano di melma che fa affiorare il peggio: razzismo e sessismo sono un aspetto dominante in questa nuova forma di interrelazioni umane. L’informazione non è più atta a informare bensì a stupire, ci si intrufola nelle vite degli altri, e si parla solo delle di vite di quelli che fanno cose squallide e degradanti. Ci si fa strada a colpi di selfie, proprio come fanno i tre protagonisti che intraprendono un viaggio lungo la statale 45. Un viaggio per conoscere, visitare e documentare 5 comunità che abitano questo territorio. Comunità che, ognuna a modo proprio, rappresentano, tramite il culto della personalità, una realtà alternativa, una via di uscita per tornare alla terra e alle sue origini, un urlo disperato per rivendicare l’importanza del singolo individuo. Comunità che però non vogliono vivere fuori dal mondo bensì nel mondo.
Le comunità de La festa nera
Verremo così a conoscere la Confraternita del Serpente Nero, che raccoglie uomini che hanno commesso crimini efferati contro le donne. In questa comunità la donna viene vista come un qualcosa che contamina l’uomo: il sangue della donna contiene ciò che innesca la violenza dell’uomo, l’unica salvezza e l’unico modo per sopravvivere è pertanto la rimozione completa, senza guardare, toccare, parlare con le donne. Secondo Zion invece è una comunità in cui si recupera tutto ciò che può essere riutilizzato, si svuotano cassonetti, cantine e solai, si detesta lo spreco e per questo nulla di ciò che si tocca può essere stato fabbricato dopo il 2015.
In questa prima parte del viaggio emerge quanto Violetta Bellocchio descriva tutto ciò senza giudicare, la sua è una freddezza implacabile, anche di fronte ai crimini più odiosi. Anzi. In mezzo a tutto questo marciume e grigiume riesce persino a trovare del bello, come le bellissime mani della ragazza sfigurata o il pulmino celeste che trasporta pellegrini. L’autrice riesce peraltro a farsi beffe di questa apocalisse quando descrive Secondo Zion, dipingendoli come i testimoni di Geova del futuro, fautori di una improba decrescita felice. La sua ironia è quasi un contraltare a tutta la rabbia e la bava che c’è oggi sui social. Il viaggio rappresenta per Ali, Misha e Nicola una sorta di redenzione e riscatto.
Come dicevo prima, i tre sono dei reporter su YouTube, hanno tentato di alzare l’asticella e di stupire a tal punto che la spettacolarizzazione della notizia è sfuggita loro di mano. Esattamente come avviene ai giorni nostri, dopo un episodio alquanto discutibile, i ragazzi vengono messi alla gogna mediatica, sputtanati e vituperati. In particolare Ali e Misha vengono minacciate, su Misha si scatena un vero e proprio massacro a suon di shaming e shitstorm collettivo. Questo è un altro passaggio significativo e attuale perché rimanda all’annoso problema del sessismo. La donna che viene insultata non per ciò che è ma in quanto donna, la sua sessualità viene utilizzata per umiliarla. Emblematico è il passaggio in cui ali va dai carabinieri a sporgere denuncia. Le viene detto che ci vogliono delle prove più concrete, che lo stalking non vuol dire niente. Che sono troppe le donne che denunciano, almeno una ogni tre. Se si dovesse dar bado a tutte coloro che si sentono minacciate, addio. Il punto è che poi una su tre viene puntualmente uccisa.

Dunque il viaggio del riscatto prosegue, si incontrano altre due comunità, la scuola di Frank dove i bambini giocano con le pistole vere durante l’ora di educazione fisica, e la comunità dei redentori dove l’unico modo per espiare le proprie pene e per sentirsi vivi è quello di lacerare il proprio corpo. Meta finale che si pone come obiettivo di questo viaggio è una figura misteriosa che aleggia durante tutto il romanzo, ovvero il Padre e la sua comunità della Mano, la cui ubicazione è ignota Ma che si dice in grado di fare miracoli e curare ogni possibile male.
Il personaggio su cui vengono puntati tutti i riflettori è sicuramente Misha, la star di ogni trasmissione, quella che riesce a osare di più, quella per cui la posta in gioco è sempre più in alto. Lei è bella e affascinante. Di lei però mi ha colpito molto un particolare: ogni volta che entra in contatto con uno di questi strani gruppi di persone, si toglie le scarpe e volta per volta le scambia con uno dei membri delle comunità, quasi a voler vestire i loro panni e liberarsi del proprio mondo. Ma il personaggio che mi ha colpito di più è sicuramente Ali. Un personaggio in cerca della sua ombra, l’unica Forse in grado di esorcizzare i propri demoni, l’unica con lo sguardo volto verso la vita e il futuro.
Nessuna vita è bella come sembra, nessuna vita è brutta come sembra: c’è una crepa in ogni singola cosa. Cercala, infilaci due dita e guarda la luce che entra. Segui quella luce fino a quando non senti di aver toccato il fondo
La festa nera è dunque un libro molto attuale, i riferimenti a quello che siamo oggi sono molteplici. Ma non è e non vuole essere un libro di denuncia. È piuttosto un libro sulla fragilità umana, sulla perdita e sulla capacità autodistruttiva dell’uomo. Con uno stile secco e preciso, minimalista ma assolutamente efficace Violetta Bellocchio diventa una abile direttrice d’orchestra in grado di dettare i tempi e i ritmi di un lento ma inesorabile nubifragio di cui purtroppo siamo tutti profughi.
“La festa nera” di Violetta Bellocchio, edizioni Chiarelettere. I libri di Marco.