Sstoria del tormentato amore fra una madre adottiva e sua figlia. Un romanzo archetipico che destruttura l’amore familiare per trovare, alla fine di ogni cosa, ancora una volta amore: il libro di cui ci occupiamo oggi è Splendi come vita di Maria Grazia Calandrone, pubblicato da Ponte Alle Grazie e candidato al Premio Strega 2021.
Poesia, musica e dolore
Il romanzo parla del rapporto di una bambina adottata dopo il suicidio della sua mamma naturale, con la sua seconda famiglia, amorevole e istruita che però prematuramente riceve un duro colpo con la morte del papà. Restano la mamma adottiva e la bimba, alla quale la donna ha già detto la verità, innestando una spirale di reazioni emotive vicendevoli, di rifiuti e ricerche di conferme, un circolo vizioso di feedback negativi che l’autrice chiama Disamore, fino alla catarsi conclusiva che giungerà però solo dopo molti anni e molto dolore.
Leggiamo dalla trama riprendendo direttamente le parole dell’autrice.
Questo romanzo fa quello che fa la letteratura alla sua massima potenza: ridà vita a ciò che non c’è più, illuminando di riflesso la vita del lettore. Ma lasciamo che a parlarne sia l’autrice.
Splendi come vita è una lettera d’amore alla madre adottiva. È il racconto di una incolpevole caduta nel Disamore, dunque di una cacciata, di un paradiso perduto. Non è la storia di un disamore, ma la storia di una perdita. Chi scrive è una bambina adottata, che ama immensamente la propria madre. Poi c’è una ferita primaria e la madre non crede più all’amore della figlia.
Frattura su frattura, equivoco su equivoco, si arriva a una distanza siderale fra le due, a un quotidiano dolore, a un quotidiano rifiuto, fino alla catarsi delle ultime pagine. Chi scrive rivede oggi la madre con gli occhi di una donna adulta, non più solo come la propria madre, ma come una donna a sua volta adulta, con la sua storia e i suoi propri dolori e gioie.
Quando si smette di vedere la propria madre esclusivamente come la propria madre, la si può finalmente ‘vedere’ come essere separato, autonomo e, per ciò, tanto più amabile.”
La poesia è il veicolo dell’elegante sofferenza della Calandrone, che orchestra un’esposizione persino musicale del proprio sentire; un moto ondoso implacabile e sereno nella sua inevitabilità, che ci espone tutti agli stessi schemi.
Lei stessa non sottolinea la sua storia come speciale, piuttosto preferisce farne un archetipo, recante le caratteristiche di un’umanità sempre alla ricerca dell’amore, dell’accettazione, dell’appartenenza. Ne fa indossare i ruoli a delle maschere, Madre, Padre, Nonna, e così via.
Presentando la sua storia, che è sua da ogni punto di vista, Maria Grazia Calandrone non cerca compassione o facilissimi retoriche, anzi. Insegue associazioni tra il mentale e il figurativo, senza giudicare né sua madre né se stessa, né le incolpevoli vittime del destino: sua madre biologica, sua madre e suo padre adottivi, se stessa…
Preferisce invece presentare i fatti: il rifiuto, la sfiducia, la certezza della sacra conseguenza e del demerito (lei dell’amore di sua madre, sua madre dell’amore della bambina che ha preso con sé). Abbraccia tutto questo con la misericordia di chi ha perdonato, ma senza dimenticare che tutto quello che proviamo è sempre proporzionato alla nostra irriducibile umanità.
Con le sue parole, quello che le è accaduto è stato “un’inezia dalle proporzioni colossali”.
Leggiamo uno stralcio del libro.
“Le ombre si accumulano in maniera massiva sotto i letti dei bambini non amati. E un umido risucchio catacombale, nel quale fruscia il vuoto artiglio del Nulla, pronto a scattare e chiudersi sulle tenere carni. Un vivaio verminoso.
Se ti muovi, ti vedono.
Ognuno gira nudo e solo sulla ruota siderale degli esposti, tanto più nudo e solo quanto più imbozzolato nella concrezione rasposa delle coperte. Sei abbandonato e sei solo.
Se ti muovi, ti vedono.
Il Disamore avvolge i letti dei bambini fra le spire di un pianto non pianto.
I bambini non amati non piangono.
Chi chiamerebbero, con il loro pianto?
Sono caduta nel Disamore a quattro anni, quando Madre rivelò Io non sono la tua Vera Mamma.”
Un passaggio splendido. E poi ancora:
“C’è una malinconia grande, nei suoi begli occhi neri, quando ricorda l’isola. Mamma, a che pensi? Guarda fisso davanti, come se non vedesse. Mamma, dove sei? A volte Mamma vede solo quello che ha perduto. Allora, io l’abbraccio e le dico ‘Mammina’, che vuol dire, ’Non lasciarmi qui sola’.”
Vedere solo quello che abbiamo perduto è un po’ il dramma dell’essere umano, che lo distanzia dagli animali nel suo inseguire qualcosa che non occorre alla biologia.
Rileggiamo ancora:
“Le parole ricordano tutto, quello che non sappiamo di ricordare. Per ciò, affidiamo loro la memoria. Per poi dimenticare, ancora e ancora, ripassare il raschietto sulla cera dei giorni.
E le parole vanno via da noi, dalla cera impassibile dei nostri volti, e attivano le leve submarine di altri esseri umani, uguali a noi. Che splendono, talvolta, come noi splendiamo. Senza saperlo.”
Lo riporterei per intero, ma non si può. Posso solo consigliarne la lettura: tra narrativa e poesia, tra specialità di un’esperienza personale e specificità del genere umano. Ogni pagina punta al ricongiungimento con una genitrice universale, con un tutto, forse crudele, forse parziale e ingiusto ma così tanto, tanto meraviglioso.
L’ultima, solo l’ultima. Giuro.
“Devo trovare il modo di sfondare il guscio, l’astuccio, il carapace, la concrezione mortale, che contiene ciascuno e, così contenendo, ci divide. Devo arrivare al cuore radiale della vita, all’infinito dentro le persone – e che lega persona a persona – e tutte queste creature, meravigliose e misere, all’eternità barbara e incandescente delle stelle.”
“Splendi come vita” di Maria Grazia Calandrone, edizioni Ponte Alle Grazie, 2020. Anonima Lettrice Italiana.