Dieci libri per regalare l’amore a San Valentino

Libri per San Valentino: per non aprire spinose contestazioni sul limite di una sola data per i sentimenti, approfittiamo della contingenza per approfondire qualcosa di inaspettato. Sono certa di sorprendere almeno qualcuno di voi (non tutti, certo, o non sarebbe il gruppo più cool in circolazione) con queste proposte, selezionate – oltre che assicurandomi che fossero tutte reperibili in libreria – con l’unico criterio della geografia: massimo una per nazione, massimo dieci nazioni. Un criterio imperfetto, lo so, che non esaurisce tutte le possibilità né esaudisce tutti i desideri, ma giacché l’amore è l’occasione, non può essere anche il filtro, o dovremmo scegliere solo nel reparto rosa. Lasciamolo sottinteso dalla data che arriva, mascheriamolo con un po’ di conoscenza dei gusti del nostro destinatario e cavalchiamolo per ottenerne il dono perfetto – e non soltanto in febbraio – per un amico, per l’amore della propria vita, per una persona importante o per sorprendere un affetto trascurato o lontano. Dunque scegliamo i libri per San Valentino in un modo originale.

Tutti possediamo l’amare. Nessuno possiede l’amore.

[ricordatevelo anche quando andrete a fuoco perché qualcuna di queste proposte non vi sembrerà avere abbastanza titolo o diritto per questa classifica, o perché avrò di sicuro mancato qualche must]

10 libri da regalare per San Valentino


La ragazza dello Sputnik – Haruki Murakami

Di Murakami si è detto tutto ciò che si poteva, ma non ancora tutto ciò che si doveva. Sul finire dei suoi anni americani l’autore compone una ode all’amore non corrisposto, delicato e fragile, che potremmo – ingiustamente – così riassumere: lui ama lei, che ama lei, che non ama nessuno. Solo delle donne ci è dato conoscere il nome, e tuttavia la storia viene presentata proprio dal protagonista maschile. Per gran parte delle pagine i personaggi femminili resteranno assenti, essendo il sentimento che l’una prova per l’altra (e che il narratore prova per almeno una di loro), il vero protagonista.

Evocativo più che narrativo, “La ragazza dello Sputnik” ci mostra un’irrealtà delicata e leggera in cui i ricordi e le figure descrittive si susseguono senza attriti, fluide, inesorabili. Il protagonista affronta silenzioso e sereno il dolore del suo amore non corrisposto, qualche volta addirittura curioso, in opposizione al caos in cui la sua amata vive e ama. Tutto è assenza: l’assenza di Sumire dal letto di lui e dal cuore di Myu, soprattutto, ma anche del desiderio di Myu, di Sumire da gran parte della storia, del nome di chi ci narra la sua storia. E quando qualcosa c’è, rischia di esserci troppo, tra suggestioni di doppelgänger, nuove personalità allo specchio e mille frantumi di chi eravamo, di fronte a chi diventeremo. Solo il personaggio narrante è uno, completo, perfetto. Non a caso, è l’unico che ami davvero. Come dice Murakami, la realtà è inadeguata, e il racconto è solo una funzione.

L’erotismo è sublimato ma mai sacrificato, spirituale ma mai assente. Alle passioni non è concesso di rimbombare, piuttosto vengono addomesticate dalle parole e soffondono luce in un mondo altrimenti buio, ma non per questo meno bello o meno giusto. Ogni desiderio, anche insoddisfatto, lavora allo yugen, la grazia mai esplicita dell’universo e l’assenza di definizioni o spiegazioni. Si può solo accettare che ci sia, come l’amore.

Nella primavera del suo ventiduesimo anno, Sumire si innamorò per la prima volta nella vita.”

“La ragazza dello Sputnik”, di Haruki Murakami, edizioni Einaudi.

Prometto di perdere – Pedro Chagas Freitas

Se la persona a cui regalerete un libro di Freitas non vi chiama la notte stessa ringraziandovi e insieme maledicendovi per il dono a cui lo avete condannato, siate certi che non lo sta leggendo. È impossibile restare indifferenti allo tsunami del ciclo dei Prometto (“Prometto di sbagliare”, “Prometto di amare”, “Prometto di sposarti ogni giorno”…) a firma del talentuoso caso internazionale di Freitas. 

Non è un saggio, non è un romanzo, non ha una trama, non c’è una mappa né una bussola, non si può nemmeno posare sul comodino per riposare gli occhi. Potrà al massimo non piacervi, infastidirvi con quel suo mo’ di manuale di ignavo fra gli ignavi, e se lo poserete sarà per non riprenderlo mai più. Esattamente come per una persona, non potrete amarlo poco.

L’unico motivo per cui in questa lista non c’è “Prometto di amare”, nonostante l’evidente e migliore attinenza, è solo perché penso che abbiamo tutti più di sedici anni e abbiamo smesso di amare in quel modo kamikaze, e che ci siamo tutti rassegnati alla doverosità di un po’ di malessere… ma se mi sbaglio, se fra di voi c’è qualcuno di puro e degno, datemi un grammo di speranza per il mondo e nei commenti scrivetemi che siete stati coraggiosi, che lo avete letto, che lo regalerete, che tutti devono tornare ad amare forte, e forti. 

Tanto prima o poi perderemo tutto comunque, e se non si perde niente non si possiede niente, perdere è ciò che si fa per vivere. Fino all’ultima cosa che perderemo, noi stessi.

“Resta per farmi impazzire o vattene immediatamente.”

Prometto di perdere” di Pedro Chagas Freitas, edizioni Garzanti

Poesie (1923-1976) – Jorge Luis Borges

Regalare versi d’amore è un gesto per cui ormai ci vuole coraggio. Il rischio di apparire melensi, privi di materia prima, ricorsivi o artificiosi, potrebbe trattenere qualcuno e fargli desiderare scelte più confortevoli. Ma se riuscissimo a superare i primi timori, scopriremmo nel mondo delle antologie poetiche una lucidità e una veemenza tali da competere con il miglior titolo cult del momento, e sicuramente in quella concisione troveremmo più forza d’espressione, più compattezza. La precisione con cui infatti Borges sigilla il momento dell’emozione, qualunque essa sia, il dolore della sua fine, l’amarezza del percepire sé stessi e la propria inerzia, non poteva essere veicolata attraverso una narrazione esplicita e meno misteriosa della poesia. Una poesia immemore del dolore che l’ha provocata e che ne resta piuttosto affascinata e grata. 

Non importa che l’amore sia l’oggetto diretto solo di alcuni dei frammenti proposti, perché c’è amore in ogni verso comunque. Borges amava la sua vita, anche mentre essa si consumava, lo consumava, lo accecava. Questa sofferenza non gli impediva di continuare a sperare nell’illuminazione successiva, e alcune delle sue ricostruzioni immaginifiche sono a dir poco attuali. Qualcuna, come la sua atea spiritualità, sono lo sfondo ben preciso di una corrente di pensiero latina che scorre più forte ad ogni embargo, ma di alcune è difficile discernere senza precipitare in una guerra di superficie: per esempio, il tema della lettura come mortificazione dell’azione, e pertanto il libro come arma mortale. Tuttavia la democrazia dell’arte prevede che non sia necessario fare prosa di ogni poesia, per apprezzarla, e citare Borges è un esercizio che si fa ormai anche senza saperlo, come nel caso dell’Elogio dell’Ombra, il cui lapidario quote imperversa da anni sulla rete. Davanti all’inutilità della vendetta e all’immanenza delle ferite emotive, così il poeta sancisce: “L’oblio è l’unica vendetta e l’unico perdono”. Immortale e definitivo. 

Tra specchi, scacchi e labirinti, tra il sogno e la morte che per l’autore non si discostano troppo l’una dall’altra e ai quali è grato in egual modo, cinquant’anni di Borges si dipanano di pagina in pagina, offrendoci a parte l’eco della musicalità originale. Inoltre la modernità dei suoi versi compensa quella distanza culturale che spesso abbiamo sentito con qualche imperituro sonetto britannico, seppur scolpito da più tempo su questa roccia che gira nel buio. 

Un dono per farsi conoscere, e per riconoscere se stessi.

È l’amore. Dovrò nascondermi o fuggire.”

“Poesie (1923-1976). Testo spagnolo a fronte”, di Jorge Luis Borges, edizioni BUR

L’arte di amare – Erich Fromm

Si cade un po’ sul morbido, con un saggio sull’amore, e forse anche un po’ sull’eterna domanda. “Serve davvero un libro che insegni ad amare?”, ovviamente no. Non esiste una guida per farsi amare, una formula magica per non soffrire già o per conoscere il nostro prossimo senza alzare gli occhi da una pagina. Tuttavia la straordinaria esperienza di lettura de “L’arte di amare” conduce a una migliore conoscenza di noi stessi – senza la quale, dovunque si va si rischia di sbattere la testa. Fede, umiltà e coraggio sono i moventi della conoscenza, che è a sua volta il modo in cui agisce l’amore che funziona. Senza condannare e giudicare, l’analista tedesco guida il lettore attraverso i momenti fondanti della storia emotiva dell’individuo, e gli snodi che ne hanno determinato lo sviluppo. La socialità, la famiglia, i partner passati, persino Dio, sono tutti personaggi di una storia che, se finisce male, termina con la disintegrazione delle emozioni e la riduzione di ogni relazione a un egoismo a due, e se finisce bene termina con noi che posiamo il libro rinnovati, confortati e soprattutto motivati. 

La pubblicazione è diventata un campione non tanto di vendite, che ci sono certi titoli che prima o poi girano per casa a tutti, quanto di gradimento, che rimane sempre uguale nonostante i tempi cambino. Per chi segue corsi di autocoscienza e indipendenza emotiva e si domanda da dove venga tutta quella saggezza, c’è finalmente una risposta. Per chi non ha tempo di chiedersi perché le sue interazioni sociali vadano sempre a finire nello stesso modo e sta per gettare la spugna, c’è finalmente una domanda. 

Il vero problema del disappunto di chi scarta questo libro, è nella parola che si è scelta per il titolo. “Arte”, rischia di fornire a tutta l’opera un’aria svenevole, leggerina e frivola, un po’ come se gli si proponesse di leggere l’oroscopo; come se l’amore fosse qualcosa di cui vantarsi, e peggio ancora qualcosa da imparare a ripetere e simulare (il criterio con cui si definisce un’opera d’arte non è forse la sua suscettibilità di essere falsificata?), e invece dovremmo intenderla nel suo significato originale. L’arte come lavoro, mestiere di pazienza e precisione, mai improvvisato, sempre rispettato. Il lavoro di amare e di amarsi. Vista così va meglio, no? 

E se non vi bastassero questi motivi per regalarvi e regalare il più diffuso manuale d’amare (non d’amore!) di tutti i tempi, sappiate che Fromm in questo libro parla male di Freud. Considerato ciò che penso in merito che qui non vale la pena di riportare, a me è sembrato un ottimo motivo per dargli una chance – che ora vi consiglio con tutto l’amore del mondo.

“La maggior parte della gente ritiene che amore significhi ‘essere amati’, anziché amare.”

L’arte di amare” di Erich Fromm, edizioni Mondadori.

Jack Frusciante è uscito dal gruppo – Enrico Brizzi

Alex e Aidi vivono la loro non-storia d’amore contando i giorni che li separano dal trasferimento americano di lei. Nei vicoli e sui colli di una Bologna che non esiste più, la musica e la rabbia spenta e tamponata dal benessere degli anni Novanta fanno da cornice al vero romanzo generazionale italiano, quello che non ha copiato mai, ma da cui tutti prima o poi hanno attinto. 

Se l’oggetto del vostro amore vi ispira ricordi un po’ vintage, se il sentimento di cui parliamo è un po’ pastelloso e confuso in una nuvola di chewing-gum e musicassette, niente potrà trattenervi da questo tuffo nel passato. Anzi, per chi è nato alla fine degli anni Settanta, più che passato l’adolescenza sembra una visione, è meno reale degli anni precedenti, persino di quelli che non abbiamo vissuto ma che abbiamo visto solo in tv. Ma l’amore teen difficilmente passa; le persone non saranno durate, però il ricordo delle passioni che ci hanno animato quando credevamo di essere i protagonisti del nostro video personale soli contro il mondo, rimane e scolpisce le regole per gli amori che verranno poi. Molti di noi sono stati Alex o Aidi, e ancora di più hanno sperato che tornassero; ma quanto a questo, l’autore è stato categorico. Tanto vale consolarsi con riletture amarcord, o doni da generazione X. 

Quando penserete di trovarci “Il giovane Holden”, ce lo troverete; quando penserete di trovarci “Il Piccolo Principe”, ce lo troverete; quando penserete di trovarci voi stessi, dovrete domandarvi se siete dentro o fuori dal gruppo, e avere abbastanza coraggio per ascoltare la risposta. A fronte di un po’ di adeguamento all’ostico ritmo emiliano della narrazione emozionale di Brizzi (a meno che non siate degli indigeni) l’esperienza di uscire dal gruppo insieme ad Alex è una full immersion nel primo generazionalismo possibile dopo Kerouac e Salinger, il primo glorioso inno all’amore puro dopo tanti anni di torpore. 

“Ma questa non è una ragazza, è un intero disco di Battisti.”

Jack Frusciante è uscito dal gruppo“, di Enrico Brizzi, edizioni Baldini & Castoldi

Zanne – Sarah Andersen

Nel caso in cui non seguiate ancora la pagina di Sarah’s Scribbles dovreste cominciare a farlo, a meno che non amiate il malumore del lunedì mattina. Tenera e affascinante, Sarah Andersen non ha nemmeno trent’anni e ha già conquistato una bella parte del web con le sue strisce quasi quotidiane, un ottimo antidoto contro i cerchi alla testa post-riunione su Skype. Senza mai prendersi sul serio, la fascinosa simil-Amélie riassume le stravaganze e il nonsense del quotidiano di ciascuno da un punto di vista femminile, non solo per via del suo personaggio principale che è anche il suo alter ego, ma perché ha reso quella dolcezza il simbolo della serenità con cui sceglie di osservare il mondo, nonostante qualche occasionale crisi di introversione e il bisogno compulsivo di pettare gli adorati gatti. 

La sua quarta pubblicazione per Beccogiallo conferma il favore italiano, navigando in acque sempre più lontane dalla prima apparizione nel volume “Crescere, che palle!”. Contrariamente alle raccolte di strisce precedenti, infatti, “Zanne” è un’unica storia – d’amore, what else? – che sottolinea anche con un’inedita livrea rosso scuro il passaggio di consegne fra l’idillio dell’infanzia e il disincanto dell’età adulta. Fin troppo adulta, anzi: la protagonista Elsie ha ben trecento anni, ma per sua stessa ammissione se li porta come una ventiseienne… naturalmente è una vampira che si innamora di licantropo. Niente di meglio di un po’ di amore intraspecie per dichiarare a chi non se lo aspetta una passione che non conosce limiti, nemmeno quando la fame d’amore comincia a essere un po’ troppo letterale. 

L’unico difetto riscontrato all’unanimità, finora, è che finisce troppo presto. Ma non abbiate timore: la Andersen sembra non aver ancora esaurito la fortunata vena che, dai suoi anni scolastici con i primi timidi disegni sul web, l’ha condotta oggi fino a noi. E se proprio vi prende l’ansia da abbandono dopo aver regalato “Zanne”, rifatevi acquistandolo anche per voi, oppure con l’opera omnia della Andersen o una serata di scrolling livello pro delle sue generose pagine social.  

“Dovremmo avere un bambino.”
“Per cena?”

Zanne” di Sarah Andersen, edizioni Beccogiallo.

Il piccolo principe – Antoine de Saint-Exupéry

Tutti lo abbiamo letto, quasi tutti lo abbiamo regalato, in pochi lo hanno detestato. Persino chi non ne è un fan sfegatato (io!) non può esimersi dal riconoscere il valore che ha assunto nella letteratura e nella formazione, e persino la forza positiva che pare effondere da ogni frase. Non c’è niente che non valga quanto gli si attribuisce, fra le pagine delicate della storia di educazione sentimentale più venduta e diffusa della storia dell’editoria. Se i russi hanno formulato ogni mal d’amore possibile, al pilota francese spetta il merito di averlo definito nel suo valore, di aver stabilito che in qualunque modo si consumino le nostre atroci vicende di cuore, sarà valsa la pena averle vissute. Non è un punto di vista da buttar via, persino per gli scettici; e tutti i cuori cinici del mondo non negheranno di aver vibrato su una corda universale, leggendo come volpe e principe si siano addomesticati l’un l’altra, e quanto il principe abbia amato la sua rosa, e perché abbia deciso di tornare a casa. Quanto agli schizzi di Saint-Exupéry, che persino chi non ha letto il libro conosce per assimilazione globale, io li avrei infilati sul Voyager insieme a tutta quella musica classica. 

Nell’ambiente editoriale c’era grande scalpore in vista della scadenza dei diritti per i settant’anni dalla morte dell’autore ma soprattutto per la riserva sulla traduzione: le immortali parole della Bregoli sono rimaste troppo tempo con i lettori di tutto il mondo per essere semplicemente sostituite. Con la sola supervisione di Beatrice Masini (superba traspositrice, che lo dico a fare, di Harry Potter) la Bompiani ha riproposto la sua versione storica, ma anche nel resto del mercato le nuove edizioni sono letteralmente piovute dal cielo.

Se voi leggerete questo libro, per esempio, tutti i giorni alle quattro, dalle tre comincerete a essere felici.

E ora mi dispiace ma devo proprio dirlo:
“L’essenziale è invisibile agli occhi.”

Il piccolo principe“, di Antoine de Saint-Exupéry, edizioni Bompiani.

Orgoglio e pregiudizio – Jane Austen

Non ci sono più preamboli abbastanza originali per descrivere il capolavoro dell’autrice inglese, che divide da sempre il pubblico di lettori fra quelli che lo hanno adorato e quelli che devono abbandonare la stanza appena si comincia a parlarne. La storia ha già decretato il suo posto fra i classici, ma vale la pena ricordare ancora una volta le sue caratteristiche a chi vorrebbe farne un dono d’amore.

La famiglia Bennet è in sussulto: fra i nuovi vicini di casa si annoverano ospiti interessanti, almeno dal punto di vista delle cinque signorine Bennet, affascinanti benché svantaggiate dalla mancanza di contegno della madre invadente e da una contingenza economica legata alle circostanze dell’epoca. Sebbene l’amore sia un lusso che in pochissimi trovano indispensabile, questo finisce per muovere molti più intrecci del dovuto, riempiendo centinaia di pagine con maremoti di emozioni, tempeste sentimentali, onde anomale d’amore inopportuno e supercattivi pericolosissimi all’orizzonte… tutto ovviamente avviene nel cuore dei protagonisti, e resta imbrigliato nei vezzosi dialoghi che oggi avrebbero reso la Austen una sceneggiatrice da screwball comedy, in special modo nel cuore di Elizabeth, e di chi fa il tifo per lei (ma il signor Bennet resta il personaggio più interessante, a mio dire). Famosa per i suoi discorsi diretti talmente ben caratterizzati da rendere inutile segnalare di volta in volta chi abbia la parola, Jane Austen dirige un’opera “perfetta” (lo disse Virginia Wolf!) così precisa e proporzionata da non trovare praticamente detrattori nel suo genere, immortalando un’epoca e insieme l’ideale che ancora oggi insuperato rappresenta. 

Esistono decine di edizioni, ed è fra i più frequenti dono letterari fra amiche, tuttavia mi pare che più traduzioni escano più ci si allontani da quel calore sobrio e ricco allo stesso tempo, e da quella eleganza che abbiamo imparato ad assegnare alle atmosfere della campagna inglese di inizio Ottocento. La mia versione preferita è la trasposizione di Maria Pia Balboni, per Fabbri Editore, forse un po’ datata: a voi consiglio di trovarne una al massimo degli anni Novanta, ultimo grande decennio della traduzione italiana, ma qui sotto vi segnalo quella di una casa editrice che – bontà sua – rinnova senza sostituire.

“Prima di accorgermi che avevo cominciato, ero già a metà strada.” 

Orgoglio e pregiudizio” di Jane Austen, Edizioni Crescere

Resta con me – Ayobami Adebayo

Nigeria, anni Novanta. La bellissima Yejide e il buon Akin si sposano per amore. Una vita lieta dovrebbe attenderli, pur sullo sfondo di gravi cambiamenti politici, ed entrambi – felice coincidenza – condividono le idee sulla famiglia e sulla monogamia: questo finché l’arrivo dei figli non comincia a tardare, e una narrazione che alterna sia il tempo sia i punti di vista, comincia a illustrarci quanti mondi esistono appena fuori dalla nostra porta. 

C’è dentro le frasi di Ayobami Adebayo un’evocazione vivida della materia che compone il reale, di cui la letteratura occidentale manca parecchio, presi come siamo a sublimare connessioni, formulare immagini digitali, una nebbia di intangibilità che non trova mai la forza di figure sincere e rapportate con la natura: “raccontare storie robuste come una fune di verità”, “essere pallido come un mango”, “parole che si arrampicavano come formiche soldato”, sono il segno che da qualche parte in giro ci sono state persone prima degli account. 

Non servirà dirlo, occorre sospendere sia il metro di giudizio occidentale sia quello contemporaneo, dietro il quale se ci trinceriamo rischiamo di perdere obiettività e ragioni, e di non poterci godere né i racconti di Sherazade né la Divina Commedia. 

“Resta con me” affronta la mortalità infantile, l’intimità, l’adulterio e le differenze culturali con eleganza e parsimonia, per le quali gli si perdona un finale un po’ telefonato. Nonostante la durezza e l’amarezza della storia, è l’amore la pagina su cui si dipana la matassa, sull’amore è stato scritto lo straordinario pluripremiato debutto della Adebayo.

“L’amore è una prova.”

Resta con me”, di Ayobami Adebayo, La Nave di Teseo

Anna Karenina – Lev Tolstoj

Dite quello che volete, ma nessuno ha mai parlato d’amore come Tolstoj. Pescate un sentimento, c’è. Scegliete uno stato d’animo, c’è. Decidete un qualunque momento in una qualunque storia d’amore anche moderna, e nella storia di Anna è sicuramente successo ed è stato puntualmente ben descritto. L’innamoramento, l’attrazione fisica, il tradimento, la chimica, il fallimento, il rancore, la delusione, la crisi, gli ultimi singulti, la pazzia, la redenzione: moderno come pochi, spietato e dolce insieme, insopportabile da tollerare e sicura fonte di sofferenza, ma è una sofferenza buona. L’empatia per Anna ci conduce attraverso una caduta che le classi dell’alta società russa ottocentesca ben conoscono, quella dell’adulterio e dell’ipocrisia: ma Anna – che ha conosciuto il suo gentile carnefice proprio durante il viaggio che doveva riconciliare una parte della sua famiglia già “caduta” – osa innamorarsi, concedersi di sfidare quanto la tollerante borghesia sovietica non considera accettabile. Ed è questa società assurda, che preferisce vedere ma non sapere, il vero cattivo della storia, non il marito Karenin e il suo tiepido affetto, non l’amante Vronsky e la sua sfrontatezza, e di sicuro non Anna, colpevole solo di aver combattuto e perso – ma combattuto! – ogni sua battaglia: il matrimonio, la maternità, l’amore, la società, e infine i suoi stessi demoni, nell’epilogo forse più famoso del mondo. 

Non una parola di troppo, non una di meno; mai giudice, mai boia, né compiaciuto, né morboso. Sempre dove deve essere, puntuale sul dolore, sulla circolarità, sul valore. L’unico aggettivo che può descrivere la penna di Tolstoj è “esatta”, in qualunque senso vogliate intenderlo: tutto ciò che c’era da esigere dalla drammaturgia amorosa, è qui. 

Io ho letto la traduzione della Luporini, ma ammetto di essere di parte perché mi piacciono le atmosfere un po’ datate delle traduzioni del Novecento. Scegliete l’edizione che preferite, che tanto prima o poi tutte le case editrici portano ad Anna.

“Questa pace non la conosco e non posso darvela. L’amore sì […] ma non vedo possibilità di pace, né per me, né per voi.”

Anna Karenina” di Lev Tolstoj, edizioni Feltrinelli

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