La linea d'ombra

“30 aprile 1993” di Filippo Facci: recensione libro

La politica italiana è finita davvero la sera del 30 aprile 1993? È finita davvero fuori dall’Hotel Raphael dove Bettino Craxi risiedeva dal 1976, dopo che la Camera il 29 aprile aveva concesso due autorizzazioni a procedere e quattro contro per i capi d’imputazione di finanziamento illecito dei partiti, concussione e corruzione?

L’ex leader dei socialisti italiani (al suo posto da pochi mesi era stato eletto Benvenuti), il partito del garofano rosso e dei congressi firmati dall’architetto Panseca, la sera prima si era difeso degnamente in parlamento con un discorso che resta ancora come uno dei più lungimiranti della storia della Repubblica (non del giornale che in quel periodo si trasformò in giacobino e forcaiolo).

In sostanza Craxi chiamava in correità l’intera classe politica, i partiti e il sistema politico rappresentativo nella sua essenza, senza fare sconti e senza accusare nessuno, ma assumendosi tutte le responsabilità. Un sistema politico rappresentativo molto costoso, che non potrebbe reggersi solo con il finanziamento pubblico dei partiti, con le libere donazioni, con le tessere degli iscritti.

La libertà costa come costa la democrazia se non si vuole che ad occuparsi della res publica sia l’oligarchia, cioè la cosa pubblica nelle mani di pochi. Tutti sapevano, sostiene Bettino, non potevano non sapere e se non lo ammettono il tempo dimostrerà che furono spergiuri.

Parole forti ma efficaci e che contribuirono a quattro dinieghi a procedere che costeranno a Craxi la ferocia sfociata nel paese, sapientemente orchestrata dal MSI (i post fascisti di Fini e Rauti), i leghisti di Bossi e il PDS di Occhetto, D’Alema e il resto delle verginelle.

Quasi tutti i partiti avevano dichiarato il loro voto favorevole all’autorizzazione, stranamente anche Pannella, ad eccezione dei socialisti e dei liberali di Altissimo e la DC di Martinazzoli che lasciarono libertà di coscienza.

Liberta di coscienza perché la Costituzione prevede che per le votazioni di questo tipo il voto debba essere segreto e non palese per evitare suffragi bulgari. Craxi non aspetta le conclusioni delle controrepliche dopo il suo intervento e lesto, come soleva fare ogni qual volta, esce dall’emiciclo e si dirige all’Hotel Raphael, nella sua suite caotica e inondata di libri e riviste. I telegiornali riportano lo scandalo, a loro avviso, della votazione e lo fa perfino il fidato tg 2 craxiano che all’epoca era stato lottizzato dal PSI (il TG1 era DC e il TG3, o tele Kabul di Curzi, era degli ex PCI ora PDS).

A Milano cresce l’indignazione del pool di Mani pulite, ovvero la Procura della Repubblica del Procuratore capo Saverio Borrelli (l’aristocratico), e dei fedelissimi sottoposti Di Pietro, Davigo e D’Ambrosio (quello che sentenziò che Pinelli si fosse suicidato lanciandosi dalla finestra nel dicembre 1969 durante l’interrogatorio nell’ufficio del Commissario Calabresi).

Di Pietro è diventato il nuovo paladino degli italiani che lo hanno già eretto nuovo eroe italico spodestando Garibaldi, in Tonino il popolo riversa tutte la sua voglia di rivalsa, in una sorta di catarsi collettiva pregna dei migliori pregi dei cittadini dello stivale tricolore: vendetta, meschinità, invidia, gelosia, sprezzo verso il prossimo, ignoranza, pressapochismo e totale inettitudine.

Ed è con questi mal celati pregi e presupposti che inizia l’assedio al Raphael la mattina del 30 aprile. La gente passeggia davanti all’Hotel, passa e ripassa, corre voce che Craxi sia ancora dentro, che forse uscirà, ma le notizie non sono certe, si sa solo che la sera dovrà recarsi negli studi Mediaset della capitale per registrare una puntata de L’istruttoria condotta dall’amico Giuliano Ferrara. Durante la giornata si commentano i giornali i cui titoli a caratteri cubitali sembrano preparati apposta per essere sventolati alla prima occasione. I partiti si stracciano le vesti ma solo poche ore prima in coro hanno votato per la non autorizzazione a procedere, chi saranno stati i franchi tiratori, chi si celava dietro il voto segreto? Tutti ad additare l’avversario di turno e i più imbufaliti sono gli esponenti della Rete di Leoluca Orlando (eterno sindaco di Palermo), quello che solo un anno prima aveva detto peste e corna del giudice Falcone per poi santificarlo dopo l’attentato, i missini di Fini e la lega forcaiola (in parlamento avevano esibito un cappio sventolante) del senatur Bossi.

Intanto a Milano Borrelli convoca una conferenza stampa dicendo che farà ricorso contro la decisione del Parlamento, confondendo la Camera dei deputati con la Camera penale dei Tribunali e dimenticando che in Italia esistono tre poteri paralleli che, per equidistanza, non devono sovrapporsi ed interferirsi. Occhetto è in piazza a sobillare il popolo dei giusti, degli onesti, dei senza peccato…il popolo che alla Camera non si è alzato dallo scranno quando Craxi ha chiesto che chi non sapesse si alzasse. La foga giacobina incalza, rumoreggia, si prepara all’assalto del castello. Un castello di carta, di carta intestata della Procura di Milano. La politica non esiste più, al suo posto si sta facendo largo il popolo dei costruttori di forche, dei cappi saponati, delle ghigliottine, nessuno vuole le brioches, tutti vogliono solo il sangue. I capi popolo, missini, leghisti, ex comunisti, rifondaroli, retaioli e quant’altro, si reca nelle vicine tabaccherie per farsi cambiare cinque o dieci mila lire in monetine da cinquanta, cento o 500 lire, quelle che fanno più male se ti colpiscono bene.

Nel frattempo al Raphael entrano ed escono alcuni giornalisti, tra i quali l’inossidabile Bruno Vespa (quello che nel 1969 disse al TG che conduceva che la bomba alla Banca dell’agricoltura l’avevano messa gli anarchici), ma Craxi resta dentro, muovendosi inquieto nella hall. I commessi dell’hotel gli consigliano di uscire dal retro, in quel modo nessuno lo vedrebbe, ma Craxi non vuole, dice che se deve uscire lo vuole fare dall’ingresso principale ed è quello che fa: apre la porta con un calcio e si trova nella bolgia. Ladro è la parola più gentile che il popolo di gentiluomini assiepati gli rivolge, tra urla e canti al ritmo di Guantanamera e di chi salta socialista è! E poi parte il lancio di monetine. Una pioggia, una grandine di monete che piovono sulla scorta, sull’auto del leader socialista, su tutti. Qualcuno non contento lancia anche dei sanpietrini. Le due auto (i giornali parleranno di sette autovetture tanto per caricare la dose populista dell’informazione) partono tra la folla che sbatte i pugni sulla carrozzeria, sputa, urla. Qui mi fermo per non farvi perdere il piacere del racconto che ci fornisce Filippo Facci.

Cosa successe dopo è storia nota: la fuga dall’Italia, prima a Parigi, illuso da Mitterand e poi in Tunisia nella sua dimora ad Hammamet.

30 aprile 1993” di Filippo Facci, edizioni Marsilio. La linea d’ombra.

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